Le Noterelle Operative Ottobre 2024
1) Licenziamento per giusta causa: l’onere della prova dell’incidenza sul ritardo e sul ripristino della situazione di guarigione dell’attività del lavoratore extralavorativa (Corte di Cassazione, Sez. Lav., Sent. n. 23747/2024).
A cura di Paolo de Berardinis, Irene Nisio e Paola Longo
La sentenza della Corte di Cassazione n.23747 del 2024 si colloca in un consolidato filone giurisprudenziale riguardante il licenziamento per giusta causa per svolgimento di attività extralavorative durante l’assenza per malattia o infortunio.
Nel caso specifico, il lavoratore si era assentato dal lavoro per malattia, avendo riportato una distorsione alla mano. È stato accertato che durante tale periodo il medesimo lavoratore aveva svolto attività fisiche quali sollevamento di sedie e tavoli all’interno del bar di sua proprietà.
Tale comportamento aveva portato all’intimazione del licenziamento, avendo il datore di lavoro ritenuto la condotta del dipendente idonea a pregiudicare o ritardare la guarigione.
Il dipendente aveva impugnato il licenziamento sostenendo che le attività contestate dal datore, svolte durante l’assenza per malattia non fossero di consistenza tale da compromettere il recupero, sostenendo che il fatto materiale posto alla base del recesso non costituisse un illecito disciplinare, sanzionabile con il licenziamento.
Secondo la citata pronuncia il compimento di un’altra attività da parte del lavoratore durante l’assenza per malattia è idoneo a violare i doveri di diligenza e fedeltà previsti dall’art. 2104 e 2105 c.c. e quindi a giustificare il recesso da parte del datore di lavoro, laddove l’attività compiuta costituisce indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute e ai relativi doveri di cura e non ritardo della guarigione. Durante la malattia, il lavoratore è tenuto a rispettare determinate regole comportamentali e conseguentemente a evitare attività che possano ritardare la guarigione o incompatibili con lo stato di salute del lavoratore. In particolare, lo svolgimento di altra attività lavorativa può essere visto come violazione dei doveri contrattuali, in particolare se compromette o ritarda la guarigione. Allo stesso modo, qualsiasi diversa attività extralavorativa può configurarsi come illecito disciplinare se essa è svolta in contrasto con i citati doveri di diligenza e fedeltà ai sensi degli artt. 2104 e 2105 c.c. Il datore di lavoro ha
l’onere della prova dell’effettiva incidenza dell’attività extralavorativa nel ritardo e ripristino della situazione di guarigione, mentre l’onore di provare la compatibilità dell’attività svolta con le proprie condizioni di salute e, quindi, l’inidoneità dell’attività compiuta a pregiudicare il recupero delle energie lavorative, è posto in capo al lavoratore. Un recente orientamento giurisprudenziale ha ribadito (Cass. 26 aprile 2022 n.13063) che è comunque posta a carico del datore di lavoro, la prova dell’incidenza della diversa attività extralavorativa nel ritardare o pregiudicare la guarigione. Nel caso in esame, la decisione della Corte di Cassazione appare coerente con la giurisprudenza consolidata in materia di licenziamento disciplinare per attività extra lavorativa svolta durante l’assenza per malattia. La Corte ha dunque ribadito il principio per cui spetta al datore di lavoro dimostrare non solo l’esistenza del fatto materiale, ma anche la sua idoneità a pregiudicare la guarigione del dipendente, e quindi compromettere il rapporto di fiducia.
Osservazioni operative
– Il licenziamento del lavoratore per l’attività extra lavorativa svolta durante la malattia deve essere supportato da prove concrete che dimostrino l’incompatibilità delle citate attività con lo stato di salute del lavoratore. In mancanza della prova sulla incidenza il licenziamento sarà dichiarato illegittimo, con la condanna dell’azienda alla reintegrazione del lavoratore e al pagamento dell’indennità risarcitoria.
– Sono legittimi gli accertamenti investigativi effettuati dal datore per verificare se il lavoratore svolga, durante la malattia, ulteriori attività. I suddetti controlli possono consistere solo nell’osservazione del comportamento esteriore nella vita di tutti i giorni, al fine di dimostrare l’insussistenza della malattia, o comunque l’incidenza negativa sul processo di guarigione. Non vi è quindi una violazione del divieto di effettuare accertamenti sanitari sullo stato di salute (dallo Statuto dei lavoratori) né alcuna violazione della privacy, dal momento in cui tali accertamenti riguardano un fatto materiale che integra un illecito disciplinare, e che le indagini sono svolte a fini difensivi.
– Una delle prove che può esser data è quella della compatibilità dell’attività fisica disimpegnata dal lavoratore, rispetto alle mansioni assegnate. Sicché delle due l’una: se l’attività extra lavorativa è compatibile con la prestazione allora l’assenza è ingiustificata, laddove non lo fosse è sostenibile il potenziale aggravamento.
2) Il Jobs Act sotto la lente della Corte Costituzionale: interpretazione e implicazioni delle sentenze n. 128 e n. 129 del 2024.
A cura di Paolo de Berardinis e Silvia Laurora
Le recenti pronunce della Corte Costituzionale italiana, le sentenze n. 128 e n. 129 del 2024, hanno apportato un significativo mutamento nella disciplina dei licenziamenti, sia per giustificato motivo oggettivo che disciplinare. Questi interventi giurisprudenziali si configurano come una importante riformulazione del quadro normativo come previsto dal cd. Jobs Act e delle sue successive modifiche, rivedendo profondamente le tutele previste in caso di licenziamento illegittimo.
Le sentenze della Corte Costituzionale hanno rivisitato aspetti cruciali della legislazione sui licenziamenti, evidenziando come il principio di proporzionalità e quello di uguaglianza debbano essere rispettati in tutte le fattispecie di cessazione del rapporto di lavoro. La sentenza n. 128 del 2024 si è concentrata sull’art. 3, comma 2, del D. Lgs. n. 23 del 2015, specificamente sul trattamento riservato ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. In tale contesto, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione nella misura in cui non prevedeva la reintegrazione del lavoratore nel caso di insussistenza del fatto materiale posto alla base del licenziamento, limitandosi alla corresponsione di una indennità risarcitoria. Tale decisione ha posto in luce come l’apparato normativo vigente, caratterizzato da una forte distinzione tra i licenziamenti disciplinari e quelli economici, non rispetti il principio di uguaglianza, in quanto non garantisce una tutela omogenea a fronte della stessa gravità del vizio che affligge l’atto di recesso.
Nella sua argomentazione, la Corte ha sottolineato che la distinzione ontologica tra licenziamenti per giustificato motivo oggettivo e disciplinari non può giustificare un trattamento differenziato allorquando il fatto posto alla base del licenziamento viene giudicato, nell’uno come nell’altro caso, insussistente. Il principio di necessaria causalità, che richiede che il licenziamento sia fondato su un fatto reale, per cui sussistente, deve applicarsi uniformemente a tutte le tipologie di licenziamento. Conseguenza è che laddove il fatto allegato dal datore di lavoro non ricorra, allora la tutela reintegratoria deve essere estesa anche ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, analogamente a quanto previsto per i licenziamenti disciplinari.
La sentenza n. 129 del 2024 ha trattato un differente profilo, proprio del recesso per motivi disciplinari. In questa occasione, la Corte Costituzionale ha esaminato la compatibilità della normativa di cui al Jobs Act con i principi costituzionali e ha dichiarato che l’art. 3, comma 2, del D. Lgs. n. 23 del 2015 è costituzionalmente illegittimo nella misura in cui non riconosce il diritto alla reintegrazione quando il fatto contestato è punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione conservativa. La Corte ha ribadito che il principio di proporzionalità deve applicarsi anche in questo contesto, affermando che un licenziamento deve essere proporzionato alla gravità dell’inadempimento contestato. Per cui, se la contrattazione collettiva dispone, per una determinata condotta, una sanzione conservativa, considerando il comportamento meno grave, per cui non meritevole della sanzione espulsiva, allora il licenziamento non può ritenersi giustificato e dunque deve essere dichiarato illegittimo, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria.
Questi interventi sono stati interpretati come una riaffermazione della centralità della contrattazione collettiva nella regolazione dei rapporti di lavoro e nella determinazione delle sanzioni disciplinari. La Corte Costituzionale ha evidenziato come la previsione di sanzioni disciplinari diverse da quelle previste ex lege, quando riconosciute dai contratti collettivi, vada rispettata e non possa essere disattesa dalle previsioni di legge.
L’orientamento giurisprudenziale espresso in queste sentenze rappresenta un ritorno alla tutela reale propria del “vecchio” art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, rafforzando il ruolo della contrattazione collettiva e riaffermando i principi di proporzionalità e uguaglianza.
Osservazioni operative
Che si condividano, o meno, i contenuti delle pronunce qui commentate, vi è – comunque – la necessità di prendere atto dei seguenti aspetti, facendone discendere sul piano operativo le più opportune misure:
a) la tutela reintegratoria non è affatto residuale ma, in concreto, può essere attuata in varie ipotesi;
b) la prova sulla esistenza del fatto-motivo del recesso è fondamentale, senza di essa, sia che si tratti di licenziamento disciplinare ovvero economico, la conclusione sarà la reintegrazione laddove il licenziamento venga ritenuto infondato;
c) la lettura e condivisione delle norme disciplinari, operazione affatto agevole, deve essere tale da scongiurare che per un determinato e specifico comportamento per il quale è prevista una sanzione disciplinare, venga comminato il licenziamento. Tale analisi va fatta, e qui risiede la difficoltà, non limitandosi ad un riscontro esclusivamente letterale, ma ragionando con il parametro della adeguatezza come previsto dall’art. 2106 c.c.
3) Licenziamento e fiducia nel rapporto di lavoro: la Corte di Cassazione ribadisce i criteri di proporzionalità per la sanzione disciplinare.
A cura di Paolo de Berardinis e Silvia Laurora
L’ordinanza n. 23318 del 29 agosto 2024 della Corte di Cassazione – Sezione Lavoro, si inserisce in un contesto giurisprudenziale afferente ai licenziamenti disciplinari. Il caso oggetto della pronuncia attiene ad una vicenda nella quale una banca aveva licenziato un proprio dipendente a seguito di alcune contestazioni disciplinari. La Corte d’Appello aveva annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione del lavoratore ed assegnandogli il risarcimento dei danni, a cagione dell’insussistenza dei fatti contestati, con particolare riguardo all’assenza di elementi idonei a giustificare la sanzione espulsiva.
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi, ha affrontato una serie di questioni di diritto connesse alla valutazione della legittimità del licenziamento disciplinare, partendo dall’esame delle contestazioni mosse al dipendente e dalla corretta applicazione delle norme previste dall’art. 18 della Legge 300/1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012 (Riforma Fornero). In particolare, il fulcro del dibattito giuridico riguarda la corretta interpretazione del concetto di “insussistenza del fatto” e il suo rapporto con la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo di licenziamento.
La Corte d’Appello di Catanzaro, con la sentenza impugnata, aveva rilevato l’assenza di prova in merito alla materialità delle prime tre contestazioni disciplinari mosse dalla banca nei confronti del lavoratore. La Corte d’Appello ha ritenuto insufficienti le prove riguardanti le infrazioni commesse dal dipendente, dichiarando che non era dimostrato un concreto danno patrimoniale e che la insussistenza dello stesso escludeva la rilevanza disciplinare delle condotte contestate.
La banca ha proposto ricorso per Cassazione, articolando otto motivi di censura, sostenendo che la Corte d’Appello avesse errato nel considerare irrilevanti sul piano disciplinare talune delle condotte
contestate al lavoratore, sottovalutando l’impatto proprio della violazione delle procedure interne della banca. La banca ha, inoltre, contestato la valutazione della Corte territoriale in punto di proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto ai fatti contestati, sostenendo che la condotta del lavoratore fosse tale da compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro.
Nella sua analisi, la Corte di legittimità ha in primo luogo ribadito i principi già consolidati in materia di licenziamento disciplinare, sottolineando come il giudice di merito debba valutare la sussistenza o meno di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di recesso sulla base delle nozioni fornite dagli artt. 2119 c.c. e 3 della legge n. 604/1966. Tali norme individuano come causa giustificativa del licenziamento una condotta del lavoratore che rappresenti una grave violazione dei doveri contrattuali, tale da minare il rapporto fiduciario con il datore di lavoro. La Corte ha altresì richiamato l’importanza di considerare, in sede di valutazione del licenziamento, non solo la gravità della condotta contestata, ma anche le sue conseguenze pratiche e la proporzionalità della sanzione rispetto ai fatti accertati.
Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la Corte d’Appello avesse errato nell’escludere in toto la rilevanza disciplinare di talune condotte addebitate al lavoratore, censurando la decisione della Corte territoriale per essersi basata esclusivamente sull’assenza di danni economici in capo al datore di lavoro per escludere la gravità delle condotte. La giurisprudenza costante della Cassazione, infatti, ha più volte chiarito che la mancanza di un danno non esclude di per sé la rilevanza disciplinare, in quanto ciò che rileva ai fini del licenziamento è l’idoneità della condotta stessa a compromettere il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. Anche una condotta che non abbia prodotto alcun danno può essere considerata lesiva del vincolo fiduciario, laddove dimostri una mancanza di diligenza o di fedeltà da parte del lavoratore.
Nel valutare la sussistenza della giusta causa di licenziamento, la Corte ha evidenziato come il comportamento del lavoratore debba essere esaminato nel suo complesso, considerando anche le particolari caratteristiche del rapporto di lavoro in questione, ciò che, nel caso di dipendenti bancari, comporta la necessaria applicazione di criteri di valutazione più rigorosi, in ragione del ruolo delicato che questi lavoratori rivestono e dell’importanza delle procedure interne volte a garantire la fiducia dei clienti e dell’intero sistema finanziario.
Osservazioni operative
Ciò che nell’ambito della procedura disciplinare deve necessariamente emergere è il contesto nel quale il procedimento si inserisce. Per cui, vanno sempre rappresentati elementi quali la posizione del prestatore, le mansioni a lui affidate, la rilevanza delle procedure e le loro finalità, le eventuali ripercussioni.
Senza i predetti elementi, che diverranno poi oggetto di prova, non potrà esser data dimostrazione della ricorrenza della gravità della condotta contestata al prestatore di lavoro