Le Noterelle Operative Agosto-Settembre 2024
1) Licenziamento per giusta causa: illegittimità del recesso datoriale in caso di mancata prova della prassi aziendale consolidata. Assenza di un obbligo generale di collaborazione con il servizio di sicurezza aziendale in capo al dipendente (C. App. Milano, n. 1292/2021, cui ha fatto seguito Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. 1 agosto 2024, n. 21692).
A cura di Paolo de Berardinis e Anna Saioni
La Corte di Cassazione con ordinanza n. 21692/2024 del 1 agosto 2024, è nuovamente intervenuta sul tema del licenziamento per giusta causa, fornendo taluni importanti criteri interpretativi.
Nel caso in esame, il datore di lavoro aveva licenziato un proprio dipendente per la violazione dallo stesso commessa di una prassi aziendale consolidata. Per prassi aziendale deve intendersi la reiterazione costante nel tempo di un determinato comportamento, condiviso e seguito abitualmente dai lavoratori.
Secondo la prassi aziendale afferente al caso in questione, gli oggetti smarriti dai clienti dovevano essere immediatamente consegnati al responsabile dell’esercizio. Il dipendente, invece, aveva trattenuto per circa sei ore il portafoglio smarrito da una cliente presso la cassa, e, successivamente, si era rifiutato di collaborare con il funzionario del servizio di sicurezza aziendale incaricato delle indagini sull’accaduto.
Nei due processi di merito, l’azienda non è riuscita a dimostrare l’esistenza della citata prassi aziendale, questa volta riguardante la gestione degli oggetti smarriti, elemento cruciale della contestazione disciplinare e del licenziamento dichiarato illegittimo.
La Corte di Cassazione ha confermato questa interpretazione.
La Corte di legittimità ha rilevato che la sentenza d’appello aveva valutato correttamente il materiale probatorio, giudicandolo insufficiente a dimostrare l’esistenza della prassi aziendale. Solo uno dei quattro testimoni escussi aveva fatto riferimento alla regola aziendale in questione, e ciò non è stato ritenuto sufficiente a dimostrare la conoscenza generalizzata e pacifica della prassi da parte di tutto il personale aziendale. Conseguentemente, un comportamento isolato non costituisce un obbligo vincolante per tutti i dipendenti quanto alla consegna degli oggetti smarriti. Inoltre, nel codice disciplinare aziendale non vi era alcuna menzione di tale prassi. Di conseguenza, l’obbligo di riconsegna
degli oggetti smarriti, non essendo sancito in modo chiaro e noto, non è stato considerato utile ai fini della gravità della condotta, di tale portata da giustificare il licenziamento per giusta causa: “Solo una norma di condotta comunicata a tutti i dipendenti in modo chiaro – tanto più in quanto esulante dal codice disciplinare scritto – potrebbe, infatti, legittimare il recesso per giusta causa in caso di trasgressione”.
Secondo la Suprema Corte anche la valutazione della Corte d’Appello circa la mancanza di un obbligo giuridico specifico per il dipendente di rispondere al funzionario è corretta. Non è infatti sufficiente il “generico richiamo all’obbligo di collaborazione ex art. 7 St. Lav. o al generale obbligo di collaborazione riferito all’esecuzione della prestazione di lavoro”. Quindi, il rifiuto del dipendente non può assumere rilevanza disciplinare.
Osservazioni operative
Alla luce di queste pronunce, si raccomanda alle aziende di documentare accuratamente le prassi interne e di comunicarle in modo chiaro ai dipendenti, preferibilmente mediante l’inserimento di queste nei codici disciplinari tramite un regolamento aziendale debitamente pubblicizzato.
Inoltre, è cruciale definire nei regolamenti interni o nei contratti di lavoro l’obbligo di collaborazione con le indagini interne, specificando le eventuali conseguenze in caso di rifiuto.
2) In assenza di prova dell’elemento soggettivo dell’illecito, al licenziamento ritenuto illegittimo si applica la tutela reintegratoria prevista dall’art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970, che si estende anche ai casi in cui il fatto sussiste ma è privo del carattere di illiceità (Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. 26 luglio 2024, n. 20891).
A cura di Paolo de Berardinis e Anna Saioni
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 20891/2024 del 26 luglio 2024, ha ribadito la sua posizione in merito all’onere del datore di lavoro di provare la sussistenza della giusta causa di licenziamento anche nella fattispecie di presunta falsificazione dei certificati medici.
In particolare, la pronuncia in esame attiene ad un caso in cui un lavoratore è stato licenziato per aver presentato certificazioni mediche false per giustificare la propria assenza dal lavoro.
Il Tribunale di Roma ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento, ordinando la reintegrazione del lavoratore e il pagamento di un’indennità risarcitoria pari agli importi dovuti dal giorno della
sospensione della paga e del servizio sino all’effettiva reintegra, così come previsto dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, modificato dalla legge Fornero, applicabile ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015.
Il datore di lavoro ha impugnato la sentenza, ma la Corte d’Appello ha respinto il reclamo, confermando la decisione del Tribunale. La Corte di secondo grado ha evidenziato che non era emersa la prova della consapevolezza da parte del lavoratore della falsità dei certificati, quindi, mancando il profilo soggettivo di colpevolezza, non poteva essere considerato l’autore di un illecito, atteso che il lavoratore non è gravato dal dovere di controllare l’autenticità del certificato rilasciatogli, essendo legittimo il suo affidamento sull’operato del medico.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, ha confermato la decisione della Corte d’Appello, richiamando l’art. 5 della l. n. 604/1966, secondo il quale l’onere della prova circa i fatti sottesi alla giusta causa del licenziamento grava sul datore di lavoro.
Ritornando alla circostanza oggettiva, è stato ritenuto che, seppure le firme dei certificati non erano genuine, tanto non riguarda il dipendente, che non aveva contribuito alla contraffazione dei documenti, né poteva essere ritenuto responsabile della gestione irregolare dello studio medico, dove tali certificati venivano talvolta sottoscritti da colleghi o dalla segreteria in assenza del medico titolare.
L’elemento soggettivo dell’illecito disciplinare, rappresentato dalla consapevolezza della falsità dei certificati, non è stato dunque provato. Non è emersa alcuna evidenza per cui il lavoratore potesse essere ritenuto consapevole dell’inautenticità dei certificati utilizzabili con l’intento di ottenere un indebito vantaggio.
L’istruttoria condotta dai giudici del merito ha confermato che il lavoratore non era presente al momento della compilazione e della firma dei certificati, che ritirava direttamente dalla segretaria dello studio medico.
La conclusione è che non si è in presenza di un licenziamento per giusta causa, in quanto è insussistente il fatto contestato. Di conseguenza, trova applicazione la tutela reintegratoria (attenuata), la quale “ex art. 18, comma 4, st. lav. novellato, applicabile ove sia ravvisata ‘l’insussistenza del fatto contestato’, comprende l’ipotesi di assenza ontologica del fatto e quella di fatto sussistente ma privo del carattere dell’illiceità (anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo)”.
Osservazioni operative
In termini operativi:
a) in caso di sospetto su un certificato medico, l’azienda deve avviare un’istruttoria interna per accertare che sussiste la consapevolezza del lavoratore riguardo alla falsità del documento (attraverso, ad esempio, testimoni);
b) prima di procedere con il licenziamento, è fondamentale valutare attentamente la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito disciplinare, considerando che la mancata prova in merito alla consapevolezza comporta l’annullamento del licenziamento e la reintegrazione del dipendente.
3) È sanzionabile, sul piano disciplinare, la condotta del lavoratore che si rifiuta di partecipare ai corsi di formazione in materia di sicurezza sul lavoro, organizzati dal datore in orario straordinario (Cass., 10 maggio 2024, n. 12790).
A cura di Paolo de Berardinis e Paola Longo
Con l’ordinanza n. 12790 del 10.05.2024, la Corte di Cassazione offre un utile spunto di riflessione in merito all’obbligo del datore di lavoro di formare i propri dipendenti sui rischi e sulle misure di sicurezza sul lavoro tanto ai sensi del D.lgs. n. 81/2008. La citata pronuncia assume particolare rilievo, in quanto pone i limiti e definisce le modalità secondo cui deve essere adempiuto tale obbligo di formazione, garantendo contemporaneamente la tutela dei diritti dei lavoratori e la conformità alle disposizioni normative vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Il tema della controversia, l’ordinanza, afferisce all’interpretazione dell’art. 37 D.lgs. n. 81/2008 in relazione all’obbligo del datore di lavoro di organizzare corsi di formazione e sicurezza,
discutendosi se tale obbligo vada adempiuto durante l’orario di lavoro ordinario, ovvero, possa riguardare anche un momento successivo, vale a dire l’orario di lavoro straordinario.
Il D.lgs. n. 81/2008 dispone, all’art. 37, par.12, che “La formazione dei lavoratori e quella dei loro rappresentanti deve avvenire, in collaborazione con gli organismi paritetici, ove presenti nel settore e nel territorio in cui si svolge l’attività̀ del datore di lavoro, durante l’orario di lavoro e non può̀ comportare oneri economici a carico dei lavoratori”.
Nel caso di specie, il lavoratore adiva il Tribunale per impugnare il provvedimento datoriale di sospensione dal lavoro, irrogato per mancata partecipazione ai corsi di formazione obbligatori, argomentando che il corso era stato programmato in orari non coincidenti con il suo normale orario di lavoro.
La Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello, rigettando il ricorso del lavoratore e quindi affermando che il datore di lavoro non è obbligato a organizzare i corsi di formazione e sicurezza necessariamente durante l’orario di lavoro ordinario, atteso che la normativa non impone che detta formazione avvenga solo nel caso dell’orario ordinario medesimo, dovendosi quindi considerare anche l’orario eccedente, vale a dire lo straordinario.
Il principio su esposto tiene conto che il datore di lavoro ha la possibilità di organizzare la formazione in ragione delle esigenze aziendali, senza dover minimamente considerare l’orario di lavoro ordinario del singolo prestatore partecipante.
La Corte ha evidenziato la previsione dell’art. 37, comma 12, del D.lgs. n. 81/2008 va interpretato considerando l’ampiezza della definizione di “orario di lavoro” di cui alla L. n. 66/2003, che comprende tutto l’arco temporale in cui il dipendente è a disposizione del datore di lavoro, che comprende l’orario di lavoro straordinario. Pertanto, la formazione può avvenire anche al di fuori dell’orario ordinario stabilito contrattualmente, purché venga retribuito il lavoro straordinario.
La pronuncia in parola si inserisce in un contesto giurisprudenziale più ampio che mira a conciliare l’obbligo di formare i lavoratori in materia di sicurezza con le necessità organizzative aziendali, assicurando al contempo il rispetto delle disposizioni legislative e la tutela della salute e sicurezza sul luogo di lavoro.
Osservazioni operative
In definitiva, il datore di lavoro ha la possibilità, laddove le esigenze di produzione e i piani operativi non consentano lo svolgimento dei corsi di formazione sulla sicurezza durante l’orario lavorativo ordinario, di organizzarli anche in orario di lavoro straordinario – purché, ovviamente, entro i limiti di legge. La conseguenza del rifiuto del prestatore comporterà la sanzionabilità di tali condotte nel piano disciplinare.