Noterelle Novembre 2023

Noterelle Novembre 2023

Noterelle Operative Novembre 2023

  1.  L’azione risarcitoria che il datore di lavoro può esperire nei confronti del dipendente per i danni da quest’ultimo cagionati non è subordinata all’esercizio del potere disciplinare (Cass., 10 ottobre 2023, n. 27940).

A cura di Paolo de Berardinis

Vi sono domande che, spesso, pongono in imbarazzo anche se rivolte a persone esperte della materia lavoristica.

Una di queste è la seguente: è possibile richiedere il risarcimento del danno ad un lavoratore subordinato, anche se non si è provveduto a contestare l’accaduto sul piano disciplinare?

Di primo acchito verrebbe da rispondere che se, per qualsiasi motivo, la contestazione disciplinare non è stata compiuta, allora anche la domanda tendente al risarcimento del danno che quell’azione ha causato non può essere considerata, in quanto la responsabilità del lavoratore è una.

Così però non è, e ciò è stato anche da ultimo affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 27940 del 10 ottobre 2023.

Ma, ci si potrà chiedere, perché mai le due azioni -quella disciplinare e quella risarcitoria- sono scisse se poi entrambe fanno capo sia al medesimo rapporto contrattuale, nonché agli stessi accadimenti e, in fin dei conti, allo stesso prestatore?

Vero è senza meno che il contratto di lavoro è unico come unici sono i fatti -costituenti l’inadempimento che il prestatore ha commesso- ma ciò, in termini di diritto, non fa sì che le predette azioni si muovano sul medesimo piano.

La sentenza sopra citata afferma tale differenza, anche se in maniera non particolarmente articolata (e del resto non è compito della Corte quello di argomentare oltre lo stretto necessario per rendere intellegibile la decisione).

Osservazioni operative.

Il tema non solo è interessante quanto, da un punto di vista operativo, rilevante.

Infatti, a ben vedere, il ritenere che il mancato esperimento della procedura disciplinare condizioni l’azione risarcitoria, significa attribuire alla stessa una portata che non possiede.

La sanzione disciplinare -anche espulsiva- non è mai volta a riequilibrare patrimonialmente la posizione del datore di lavoro laddove alterata dal comportamento del lavoratore, ma sta a sancire, in ragione della gravità, la più o meno rilevante perdita di fiducia, ciò che può determinare come noto anche la cessazione del rapporto di lavoro.

Per cui, restando nel campo operativo, la decadenza -ovvero anche solo la intempestività- dell’azione disciplinare che pregiudica la sanzionabilità della condotta del collaboratore, non limita il diritto del datore di lavoro a pretendere il risarcimento del danno, a meno che, per effetto della prescrizione, non sia venuto meno questo specifico diritto.

 

  1. Quando avviene che il fringe benefit costituisce retribuzione?

A cura di Paolo de Berardinis

Nella gestione delle risorse umane, nel tempo, la parte relativa ai c.d. benefit ha assunto una importanza sempre crescente.

Tra i benefit per così dire più graditi, anche in ragione del suo valore, vi è quello della autovettura c.d. aziendale.

Con una certa frequenza viene in rilievo l’aspetto della modificabilità, ovvero della revocabilità, della assegnazione della autovettura aziendale. La questione non è diversa rispetto ad ogni altro tipo di benefit, ma nel caso, proprio in ragione del valore del beneficio, suscita reazioni.

Le situazioni sono come noto molto variegate, per cui – cercando di ridurle a quelle  più ricorrenti- può aversi che l’autovettura venga concessa per rendere possibile, ovvero, per agevolare lo svolgimento dell’attività lavorativa. In un tal caso si tratta di uno strumento con il quale il lavoratore rende la sua collaborazione.

Si pensi a coloro che svolgono su di un territorio più o meno vasto la propria  prestazione, quali venditori c.d. diretti, ovvero ispettori e via dicendo. Qui lo strumento autovettura non assume mai un profilo retributivo se non viene concesso per l’uso privato.

Va fatto un primo distinguo, a seconda che il prestatore sia tenuto o meno a versare una somma al datore o all’azienda che la autovettura fornisce, pagando di tasca propria anche il carburante che utilizza per il predetto uso privato.

In tale ultimo caso alla concessione per uso lavorativo si aggiunge una causa giuridica diversa relativa alla concessione, che potremo identificare nel contratto di locazione (noleggio) a titolo oneroso del bene.

Viene spesso riferito che la natura retributiva in ogni caso esisterebbe, ciò in quanto il datore di lavoro assoggetta a tributi ed a contributi talune somme, regolandosi a seconda della esistenza e del valore dell’importo che al lavoratore corrisponde (art.  51, DPR n. 917/1986).

Questa affermazione non coglie nel segno, in quanto l’obbligo di cui si è detto attiene alla sussistenza del bene in natura (fringe benefit), ma ciò non prova di per sé alcun collegamento con la retribuzione intesa quale compenso della prestazione.

La situazione infatti è più articolata. Per comprenderla si deve partire dai principi civilistici propri della retribuzione, in primo luogo da quello della corrispettività e quindi dal succedaneo della non decurtabilità, ma sempre nell’ambito dei principi dettati dagli articoli 36 della Costituzione e 2103 cod. civ.

Abbiamo citato il caso dell’uso della autovettura quale strumento volto a rendere la prestazione, ed abbiamo altresì riferito che una tale situazione nulla ha a che fare con la retribuzione, questo perché le norme ora citate – nell’assicurare la sufficienza e la corrispettività della retribuzione coerentemente alla professionale del lavoratore- attengono a diritti che non riguardano il modo con cui l’attività lavorativa viene disimpegnata e gli strumenti adoperati. Sicché, in tali casi, laddove le mansioni del lavoratore munito dall’azienda di autovettura vengano meno, ben può il datore di lavoro revocare l’assegnazione del bene; ciò attiene al c.d. Ius variandi, vale a dire al diritto riconosciuto dalla legge secondo il quale è data facoltà al datore di lavoro, a certe condizioni, di modificare la propria struttura organizzativa anche a mezzo della modifica delle mansioni e dunque del mezzo utile al loro disimpegno.

Diversa è invece la situazione nella quale l’autovettura secondo accordi ovvero di fatto, sia parte della retribuzione.

Ciò avviene, ad esempio, allorquando l’autovettura viene assegnata per il solo fatto che il lavoratore accede ad una particolare posizione ovvero ad un inquadramento superiore, per cui – secondo le prassi aziendali- egli consegue il diritto al benefit. In questo caso infatti appare evidente che il bene è riferibile alla mansione, per cui il valore dello stesso altro non è che un compenso aggiuntivo dovuto al ruolo per cui alla professionalità acquisita e riconosciuta.

Un ruolo particolarmente significativo è giocato delle prassi interne, dalle c.d. policy, ovvero in rari casi, da accordi specifici.

È evidente che nell’esempio ora citato, il benefit si inserisce nella struttura sinallagmatica del contratto di lavoro per cui nel compenso irriducibile secondo le norme già citate, sicché il benefit così acquisito non è più revocabile.

Osservazioni operative.

Sul lato operativo vi è la necessità di prestate la massima attenzione alle predette modalità operative, al come ed al perché il benefit viene attribuito, per cui ai contenuti delle policy ed anche agli stessi comportamenti.

 

  1. Il mancato assorbimento dell’importo riconosciuto ai dipendenti a titolo di “superminimo assorbibile”, reiterato a seguito di due rinnovi contrattuali collettivi nazionali, costituisce uso aziendale (Cass., 17 luglio 2023, n. 20682).

A cura di Lorenzo Cola

Un tema assai insidioso e delicato è quello degli usi aziendali, spesso trascurato.

Molteplici sono i comportamenti concludenti del datore di lavoro che, se reiterati nei confronti della generalità dei dipendenti o di specifici gruppi, costituiscono una modifica in melius delle condizioni contrattuali. Ed infatti, la giurisprudenza ha qualificato come tali e, quindi, come usi aziendali, svariate fattispecie, dalla gestione degli orari di lavoro alla attribuzione di premi legati alla fedeltà aziendale, dalla introduzione di misure di welfare, ed ancora a meccanismi retributivi premianti per le sole lavoratrici.

Ebbene, la sentenza della Corte di Cassazione del 17 luglio 2023, n. 20686 ha giudicato un ulteriore caso di uso aziendale, in tema di superminimo assorbibile.

I giudici di legittimità hanno dunque ritenuto che il datore di lavoro, non avendo operato l’assorbimento del superminimo individualmente stabilito nei contratti individuali di lavoro, in occasione di due rinnovi contrattuali collettivi che avevano disposto un incremento dei minimi retributivi, ha posto in essere una condotta che ha ingenerato nei lavoratori un legittimo affidamento, tradottosi in una prassi aziendale tale da stabilire che il superminimo non era più assorbibile.

Le conclusioni cui è giunta la Corte prendono le mosse dalla definizione di uso aziendale, elaborata –pacificamente- in dottrina e giurisprudenza, per la quale la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento del datore di lavoro, che si traduca in un trattamento economico o normativo dei dipendenti migliorativo rispetto a quello previsto dai contratti individuali o collettivi, costituisce, per l’appunto, prassi aziendale vincolante.

Perché si configuri, dunque, l’uso aziendale, occorre che la condotta datoriale sia: (i) generalizzata, vale a dire riguardante tutti i dipendenti ovvero anche solo ristrette categorie di essi, purché omogenee (ad esempio, avendo riguardo alle mansioni ovvero alle qualifiche); (ii) costante e ricorrente, in modo tale da ingenerare nei lavoratori, che beneficiano del trattamento più favorevole, un legittimo affidamento circa il consolidamento della prassi; (iii) tale da determinare l’attribuzione ai dipendenti di un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto dalla legge o dalla contrattazione (individuale o collettiva); (iv) spontanea, intendendosi per tale la condotta posta in essere dal datore di lavoro in assenza di un vincolo giuridico.

Ne deriva l’effetto per il quale il comportamento datoriale appena descritto, in quanto uso aziendale, secondo l’orientamento maggioritario, si qualifica come c.d. “fonte sociale”, al pari dei contratti collettivi (anche di livello aziendale) e del regolamento d’azienda, trattandosi di un atto unilaterale che è espressione dell’autonomia collettiva del datore di lavoro, idoneo ad incidere sul trattamento economico e normativo di fonte collettiva spettante ai dipendenti, purché per loro più favorevole.

Inoltre, la sentenza in esame afferma che l’uso aziendale non è unilateralmente modificabile in peius ovvero revocabile, per mezzo di una successiva prassi datoriale. La revocabilità o modificabilità in peius dell’uso aziendale sarebbe ammissibile solamente se proveniente dalla contrattazione collettiva aziendale o nazionale (se espressamente pattuito nel CCNL: c.d. “clausole di sostituzione degli usi”). Tuttavia, l’orientamento precedentemente prevalente ammette ipotesi nelle quali la prassi aziendale sarebbe revocabile dal datore di lavoro, laddove il presupposto su cui si è costituito un uso aziendale venga meno.

Osservazioni operative.

Avendo riguardo alla rilevanza -sopra evidenziata- che l’uso negoziale assume nella gestione dei rapporti di lavoro, occorre agire con cautela nell’adottare trattamenti di favore nei confronti della generalità dei dipendenti, qualora –naturalmente- si voglia limitare tale comportamento ad una spontaneità “una tantum”.

Il precedente giurisprudenziale rappresentato dal caso in esame impone di agire con attenzione anche nell’ambito del superminimo assorbibile. Ed infatti, ogni qualvolta che, in forza di un rinnovo contrattuale collettivo, si verifichi un incremento della retribuzione minima e si intenda –occasionalmente- non assorbire il superminimo accordato -come, al contrario, assorbibile- nei contratti individuali, ci si dovrà preventivamente domandare se tale condotta possa potenzialmente assumere i requisiti dell’uso negoziale ovvero se sia necessario esternare la volontà di agire solo in quella determinata occasione, e per determinate circostanze, in un certo modo.

Le conseguenze non sono di poco conto, vista l’efficacia vincolante della prassi aziendale e la sua, stando alla recente pronuncia qui esaminata, irrevocabilità mediante un successivo atto unilaterale datoriale.

 

  1. Periodo di comporto e ferie: i diversi interessi “in gioco”.

Articolo a cura degli Avv.ti Paolo de Berardinis ed Irene Nisio, pubblicato nella rubrica NT+Diritto de Il Sole 24 Ore

La Suprema Corte ha, di recente, ribadito, con l’Ordinanza n. 26997 del 21 settembre 2023, taluni condivisibili principi in merito ad una questione, sempre delicata, costituita dal superamento del periodo di comporto e delle “azioni” che il lavoratore può porre in essere al fine di evitarne il compimento.

L’equilibrio tra gli interessi datoriali e quelli del dipendente è, in tale ambito, piuttosto labile, atteso che il licenziamento per superamento del periodo di comporto – sebbene costituisca una delle ipotesi meno arbitrarie di recesso, essendo ancorato a criteri estremamente oggettivi (i.e. il computo dei giorni di assenza di malattia) – costituisce una scelta del datore di lavoro non sempre facile.

Una delle richieste che il lavoratore può avanzare, al preciso fine di evitare il superamento del periodo di comporto, è quella di poter fruire di un periodo di ferie. Così facendo il lavoratore non perderà il trattamento retributivo.

I Giudici di legittimità hanno, dunque, ancora una volta chiarito che:

  • il lavoratore assente per malattia ha facoltà di richiedere la fruizione delle ferie se maturate e chiaramente non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie;
  • a detta facoltà non corrisponde comunque un obbligo assoluto del datore di lavoro di accedere alla richiesta, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa, che per essere opposte devono essere concrete ed effettive (cfr., altresì, Cass. civ., sez. lav., 14.9.2020, n. 19062);
  • l’obbligo del datore di lavoro non è ragionevolmente configurabile allorquando il dipendente abbia, in alternativa alla ferie, la possibilità di fruire di diversi istituti legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto. Questo è il caso di quelle previsioni quali il collocamento in aspettativa non retribuita, come disposta da numerosi contratti collettivi.

Può dirsi, dunque, che, sebbene il lavoratore assente per malattia non abbia incondizionata facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, allo scopo predetto, è altrettanto vero, e condivisibile, che il datore di lavoro, di fronte ad una tale richiesta, debba effettuare una valutazione ponderata ed adeguata rispetto alla singola posizione del dipendente esposto alla possibilità della perdita del posto di lavoro.

Dovendo cercare di rassegnare in via sintetica le possibilità che possono avverarsi, si avrà che:

  1. la richiesta del prestatore va respinta solo se esistano fondate e documentabili ragioni per le quali l’attribuzione delle ferie non sia possibile;
  2. il datore di lavoro non potrà negare il godimento dell’aspettativa laddove prevista dal CCNL applicato; in tal caso la scelta del prestatore è vincolante.

 

  1. La previsione di una penale a carico del lavoratore che non prenda servizio entro la data concordata nella lettera di assunzione è legittima e compatibile con il patto di prova.

Articolo a cura degli Avv.ti Paolo de Berardinis e Giovanna Ragusa, pubblicato nella rubrica NT+Diritto de Il Sole 24 Ore

Il Tribunale di Forlì, con sentenza del 21 marzo 2023, si è espresso in merito alla legittimità della clausola penale apposta nella lettera di assunzione  che dispone in una data successiva   la decorrenza del rapporto, fornendo un’interessante opinione  sulla  compatibilità della predetta clausola con il patto di prova.

In particolare, nella pronuncia in commento viene esaminato il caso di un Dirigente che aveva sottoscritto un contratto di assunzione con efficacia posticipata a data successiva, essendo ancora dipendente di altra società.

Le parti avevano con il loro accordo  stabilito sia un periodo di prova di sei mesi, che una clausola penale pari all’ammontare dell’indennità sostitutiva del preavviso previsto in caso di licenziamento, a carico del  Dirigente,  nel caso in cui, per motivi a lui imputabili, non avesse preso effettivamente servizio entro la data concordata di inizio del rapporto di lavoro.

Accadeva dunque che il Dirigente, prima di tale data, comunicava alla società di voler rinunciare all’assunzione, avendo intenzione di rimanere alle dipendenze dell’attuale datore di lavoro.

L’azienda agiva in via monitoria ed ingiungeva al Dirigente  il pagamento dell’importo  previsto dalla clausola penale già indicato, per un valore di oltre 50.000,00 Euro.

A sua volta il Dirigente proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo dinanzi al Tribunale di Forlì, rilevando, in particolare che la lettera di assunzione sottoscritta dalle parti  non costituiva un contratto di lavoro definitivo. Per cui, attesa la previsione del periodo di prova, la comunicazione di ‘rinuncia all’assunzione’ avrebbe dovuto essere assimilata al recesso esercitato in prova. Periodo durante il quale le parti avrebbero potuto recedere liberamente dal rapporto.

Il Tribunale di Forlì ha rigettato l’opposizione proposta dal Dirigente, affermando il seguente principio: “la “clausola di rispetto della data concordata di presa servizio” apposta nella lettera di assunzione … risulta valida ed efficace ai sensi dell’art. 1322 c.c. Se è vero, infatti, che la disciplina del contratto di lavoro segue un regime speciale ai sensi del libro V del c.c., è pur vero che anche in questa materia rimane vigente il principio di autonomia contrattuale delle parti, così come stabilito all’art. 1322 c.c. Nel caso di specie, la clausola che stabilisce il pagamento di una penale e la risoluzione del contratto stabilito tra le parti qualora il ricorrente non prenda servizio alla data stabilita, è chiara espressione della relativa autonomia contrattuale”.

Il Tribunale ha inoltre precisato che nei contratti in cui è posticipata la data di assunzione, la costituzione del rapporto viene differita ad un momento successivo, ferma restando l’immediata efficacia del restante regolamento contrattuale.

In tale contesto l’operatività della predetta penale è compatibile con la previsione di un patto di prova, in quanto le due clausole in questione hanno oggetto e finalità differenti e sono volte a tutelare distinte fasi del rapporto di lavoro.

La previsione dell’applicazione della penale afferisce infatti ad un momento precedente all’effettiva costituzione del rapporto, tutelando l’interesse della società all’assunzione del dipendente ed al risarcimento forfettario del danno da eventuale inadempimento dell’impegno di prendere servizio alla data concordata.

Il patto di prova, invece, risponde ad un interesse differente e specifico delle parti, ovverosia quello di saggiare la reciproca convenienza del contratto.

Perché si possa invocare la libera recedibilità prevista per il periodo di prova ai sensi dell’art. 2096 c.c., è pertanto necessario che il rapporto di lavoro si sia effettivamente costituito e che le parti abbiano consentito e svolto l’esperimento che ne forma l’oggetto.

Se invece la comunicazione di non voler dare inizio alla prestazione lavorativa viene effettuata in un momento precedente  rispetto alla data di efficacia dell’assunzione, per cui quando il rapporto di lavoro non è ancora costituito, detta comunicazione non può assumere il valore di recesso in corso di rapporto, né tantomeno di recesso in prova, con la conseguenza che il lavoratore è tenuto al risarcimento del danno eventualmente previsto nel contratto fra le parti.

E’ noto che  la ricerca di personale specializzato  se di alto rango – quale è quello di un Dirigente-  comporta onerosi costi, in particolare laddove  ci si serva di società  specializzate  (i c.d. Head Hunter).

Pertanto, è opportuno che le imprese  si tutelino  rispetto  ad improvvisi   ripensamenti inserendo una clausola penale  nelle lettere di assunzione  laddove  la decorrenza del rapporto di lavoro  è differita ad un momento successivo.

Tale clausola potrà prevedere che qualora il  prestatore, «per motivi a lui imputabili», non prenda servizio entro la data concordata di inizio del rapporto di lavoro, dovrà versare un risarcimento dell’importo che le parti avranno stabilito, dovendo sul punto evidenziare la possibilità  della riduzione della penale da parte del Giudice.