Noterelle Operative Settembre-Ottobre 2023

Noterelle Operative Settembre-Ottobre 2023

SETTEMBRE/OTTOBRE 2023

  1. Tribunale di Torino Sentenza n. 429 del 27.4.2023 (Trasferimento del prestatore di lavoro, rifiuto e risoluzione del rapporto. L’INPS mette in dubbio la genuinità di taluni accodi e nega la corresponsione della Naspi), a cura di Paolo de Berardinis

Si ritiene utile dare avviso delle recenti azioni che l’INPS sta ponendo in essere e che hanno ad oggetto l’accertamento della rispondenza al vero dei trasferimenti che danno logo ad accordi, numerosi a quanto consta, in ragione dei quali – a fronte del rifiuto del prestatore di lavoro di trasferire la propria sede di lavoro oltre i 50 Km dalla propria residenza, ovvero raggiungibile in 80’ servendosi dei mezzi pubblici di trasporto- il rapporto si risolve in via consensuale nell’ambito di una procedura conciliativa, dando luogo al pagamento della Naspi.

Ciò che l’Ente contesta è la mancanza dello stato di  disoccupazione  realmente involontaria che, come noto, costituisce il presupposto della erogazione della misura assistenziale della quale si parla. Ebbene, sostiene l’Ipns che la “costruzione” del trasferimento costituisce il modo in cui le parti, già d’accordo sulla risoluzione del contratto di lavoro, mentre la “veste” del mutamento del luogo della prestazione costituisce solo un modo di locupletare la Naspi. In buona sostanza non vi è alcuna involontarietà della disoccupazione. Una sorta di abuso del diritto, simile alla elusione propria del campo tributario.

Va, in primo luogo, escluso che possa esigersi da parte dell’Ente la dimostrazione che il trasferimento fosse legittimo, questione questa affrontata in giurisprudenza e ritenuta priva di rilevanza (cfr Trib. Torino sent. N. 429 del 27.4.2023). Accertamento peraltro superato proprio dall’accordo delle parti che quel trasferimento non attuano, per cui neppure si sabbierò potute verificare la sussistenza delle condizioni proprie della sede ad quem.

Mentre, dimostrazioni quali l’esistenza di comunicazioni intercorse tra le parti antecedenti rispetto all’accordo, che abbiamo data certa, il riscontro della esistenza di una unità produttiva, ovvero di una zona di interesse aziendale, corrispondente alla sede di destinazione del prestatore. Ed ancora, la dimostrabilità della sussistenza delle motivazioni del provvedimento datoriale, che è cosa diversa dalla congruenza delle stesse, consentiranno di superare le, eventuali obiezioni che l’INPS dovesse  sollevare.

 

  1. Corte di Cassazione Sentenza n. 20239 del 14 luglio 2023 (Licenziamento per mancato superamento del periodo di prova), a cura di Paolo de Berardinis e Giuseppe Maccarone

La Corte di Cassazione Sezione Lavoro, con la sentenza 20239/2023, si è espressa in merito ad alcuni aspetti propri del licenziamento per mancato superamento del periodo di prova. I gradi di merito del giudizio che si erano chiusi con l’accoglimento della tesi della nullità del patto di prova (per mancata specificazione delle mansioni affidate alla lavoratrice) con le conseguenze solo indennitarie (ex articolo 3, comma 1, del D.lgs n. 23/2015). In entrambe le sentenze si scartava l’ipotesi della esistenza di un motivo illecito, ciò che avrebbe comportato la reintegrazione della lavoratrice ai sensi dell’art. 2 comma 3 della norma sopra citata. La lavoratrice ricorrente, in sede di legittimità, ha sostenuto che il recesso dovesse essere ritenuto nullo ai sensi dell’art. 1418 cod. civ. e, conseguentemente, ha chiesto la sua reintegrazione nel posto di lavoro. Inoltre, la lavoratrice ha anche proposto, in via gradata, una serie di censure sostenendo che il recesso era stato intimato in ragione della sua inidoneità (giudizio non consentito dall’art. 1 della legge 604/1966) da cui l’assenza della giusta causa, invocando, come detto, la reintegrazione nel posto di lavoro. A rinforzare la linea difensiva, la stessa, ha anche perorato la tesi della sussistenza di un licenziamento ontologicamente disciplinare, con violazione dell’art. 7 della legge n. 300/1970. Quindi, sempre in subordine, ha lamentato la violazione dell’art. 3 del c.d. Job Act, norma applicata in violazione dei principi di cui alla sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 (in sostanza, ritenendo insufficiente il risarcimento liquidato).

A fronte di tali censure la Corte ha rigettato la prima tesi afferente la nullità del recesso,  ricordando che il licenziamento in prova è, e resta, “ad nutum” per cui – seppure non interamente discrezionale, atteso che il recesso deve riguardare l’esito della prova – lo stesso, quanto alle conseguenze, laddove non rispondente ai canoni propri anche solo formali relativi al patto di prova, deve giudicarsi sulla base delle norme che afferiscono a un qualsiasi recesso (con la conseguente valutazione sulla sussistenza o meno della giusta causa ovvero del giustificato motivo). Dovendosi, dunque, applicare le ordinarie norme che riguardano il licenziamento con riferimento a un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (essendo tale quello conseguente alla conversione del contratto ex comma 2, art 1419 c.c.), non può trattarsi di nullità.

Nella sentenza in commento, gli Ermellini affermano che mentre la c.d.  legge Fornero – come interpretata dalla Cassazione con sentenza 16214/2016 – disponeva la reintegrazione nonché la tutela indennitaria ai sensi del IV° comma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori come riformato, attesa la manifesta insussistenza del fatto, così non è relativamente al sistema dettato dal Jobs Act che, nel caso scrutinato, trovava applicazione. Peraltro, si evidenzia nella sentenza, la tutela reintegratoria pur operando in una serie di ipotesi specifiche che attengono alla nullità del licenziamento, non riguardano il recesso in prova che resta qualificabile come licenziamento “ad nutum” così come previsto dalla legge n. 604/1966: dunque, il recesso in parola non è nullo. Ne deriva l’applicazione dell’articolo 3 del Jobs Act e non dell’articolo 2, come richiesto dalla lavoratrice; la tutela apprestata dalla legge è, quindi, solo indennitaria pur nella sua graduazione, in funzione della gravità del vizio. Il recesso esaminato dalla Corte, presentava una causale (il mancato superamento della prova) che, seppure inidonea a provocare lo scioglimento del rapporto (per vizio di forma), tuttavia, non  equivale alla nullità dell’atto risolutorio. Viene rigettata anche la tesi della natura disciplinare del recesso, anche in ragione della c.d. pronunzia doppia conforme, afferente le due sentenze di merito, che su tale aspetto si erano espresse nella medesima maniera.

Interessante, a parere di chi scrive, rilevare che la sentenza non esamina la questione (che poteva essere la più rilevante) relativa al quantum del risarcimento, atteso che la ricorrente in grado di appello non aveva impugnato la statuizione del primo giudice, con la conseguenza del passaggio in giudicato del capo della pronunzia.

In conclusione, rileviamo che il passaggio più interessante della pronunzia si collega alle conseguenze che, secondo la Corte, sarebbero conseguite laddove il recesso per mancato superamento del periodo di prova fosse stato soggetto alle legge n. 92/2012 anche se, in realtà, non possono esservi oggigiorno casistiche attratte alla legge Fornero, fatta eccezione per i giudizi eventualmente pendenti.

Sul punto, vale la pena di evidenziare che le sentenze della Cassazione fissano i principi guida afferenti l’applicazione e l’interpretazione delle norme, per cui non hanno riguardo al solo caso giudicato ma potenzialmente attengono anche a casi similari in cui gli stessi principi devono trovare applicazione. Vale a dire che, in applicazione della legge c.d. Fornero, alla dichiarazione di  nullità del recesso afferente il patto di prova, laddove applicabile, sarebbe conseguita la reintegrazione nonché l’attribuzione dell’indennità ex art. 18, comma 4 (Statuto dei lavoratori) di cui al testo dell’epoca. Si tratta di un aspetto non di poco conto anche se, interessati da questa eventualità sono solo i casi relativi ai giudizi che afferiscono alla medesima materia e che sono ancora pendenti.

Come detto nel caso in esame si applica il Jobs Act, come avverrebbe per ogni altro caso “corrente” atteso che la norma della legge n. 92/2012 non trova più applicazione.

Tornando all’esame della sentenza, sembrerebbe emergere una contraddittorietà, laddove la sentenza, da un lato, afferma che una motivazione, seppure illegittima sia presente nel caso e dall’altra richiama la norma (della Fornero) che diversamente dispone per l’assenza di ogni motivazione (assenza materiale).

Infine, non può non essere notato che gli argomenti che vengono spesi con riferimento alla legge  92/2012, quanto alla tutela che la stessa offre ed in materia di licenziamento, sono “dimenticati” in altre occasioni dalla Corte, in particolare laddove si tratta di determinare il dies a quo di decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro, anche se nelle sentenze del 2022 si afferma che la medesima legge non è tale da assicurare una tutela adeguata.

 

  1. Tribunale di Bari Sentenza n. 2179 del 6 settembre 2023 (Mancata ottemperanza, da parte del dipendente, di un ordine impartito dal datore di lavoro), a cura di Paolo de Berardinis

Il Tribunale di Bari, in funzione di giudice del lavoro, a con la sentenza n. 2179/2023 del 6 settembre 2023 ha affrontato una serie di temi di grande interesse che afferiscono alla questione delle ferie.

Sintetizzando quanto la pronuncia ha deciso sarà qui affrontato il tema che ha anche, un impatto operativo non indifferente.

La sentenza si chiede, dovendo decidere sul punto, se in caso di mancata fruizione delle ferie sia sempre dovuta l’indennità sostitutiva delle medesime.

Si ricorderà che questo tema era già stato affrontato anche dalla Corte di Cassazione ma con riferimento specifico alla categoria dei dirigenti, ritenendosi in questo caso che, in considerazione dell’autonomia propria del dirigente, questi è nella condizione di autodeterminare il proprio periodo di ferie. Sicché, la mancata fruizione delle sarebbe “imputabile” ad una sua non corretta programmazione della propria lavorative. Da tale ragionamento si è fatto discendere la conclusione secondo cui al dirigente non va corrisposta l’indennità sostitutiva delle ferie, a meno che il mancato godimento non sia dovuto a fattori oggettivi non dipendenti dalla volontà del dirigente stesso, si pensi ad attività lavorativa costantemente molto intensa, ed ancora a particolari scadenze ripetute nel tempo e via dicendo, eventi questi che non consentono il normale godimento delle ferie.

Il giudice pugliese muove il suo ragionamento dall’assunto secondo il quale le ferie contrattuali, quelle cioè non eccedenti le quattro settimane previste per legge, non possono essere rinunziate e, laddove non venissero godute danno luogo ad una obbligazione risarcitoria, incorrendo, in tal caso il datore di lavoro anche nelle sanzioni di tipo amministrativo previste dall’art. 18 bis, comma 3 del D.lgs n. 66/2003.

Laddove però il datore di lavoro comunichi al proprio collaboratore, per cui offra in forma scritta, la fruizione delle ferie, allora, laddove nonostante ciò le stesse non vengano godute, non sarà tenuto al pagamento di alcune indennità sostitutiva delle ferie stesse, in quanto in questo caso è il lavoratore che non ne ha volontariamente usufruito.

Da quanto sopra discende che il regime di irrinunciabilità delle ferie viene confermato ma lo stesso conserva comunque dei margini di scelta affidati al lavoratore, che potrebbe decidere di non riposare nei periodi minimi di ferie garantite, dovendosi però in tal caso indagare sulla retribuzione spettante nel corso del periodo di ferie. Potrebbe infatti avvenire che quest’ultimo sia spinto a non porsi in ferie a causa delle proprie necessità economiche necessitando di guadagnare somme maggiori rispetto a quelle che avete ricevuto durante il periodo di riposo feriale.

Ciò significa, a contrario ed ad avviso di chi scrive, che laddove nessuna differenza, ovvero una differenza poco significativa, sussiste tra la retribuzione ordinaria e quella afferente il periodo di ferie, allora la scelta del lavoratore di non porsi in ferie è a lui riferibile in via esclusiva, per cui non vi è alcun inadempimento e neppure potrebbe essere imputato al datore di lavoro un comportamento non conforme a legge, con la conseguenza che alcuna sanzione può essergli comminata.

Sotto il profilo operativo vi è da notare che, specialmente laddove i rapporti di lavoro siano annosi -con la possibilità che le ferie non godute si accumulino nel tempo raggiungendo un numero rilevante, tale che alla cessazione del rapporto il pagamento dell’indennità sostitutiva delle ferie può rappresentare una somma di notevole proporzione- è da accogliere la riflessione che la giurisprudenza in commento ha compiuto relativamente alla comunicazione dell’esistenza di ferie non godute con la contestuale offerta della loro fruizione. Può accadere, infatti, che l’invito rivolto al prestatore di lavoro sia stato fatto in via informale, per cui non vi sarebbe la prova dello stesso. Si tratta di adempimenti che, a ben riflettere, costano poco ma che possono fruttare tanto.

 

  1. Corte di Cassazione Sentenza n. 26042 del 7 settembre 2023 (Assoluzione in sede penale e licenziamento illegittimo), a cura di Paolo de Berardinis

Tra i fondamentali requisiti di una contestazione disciplinare vi è quello della necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione, da cui discende il divieto, in capo al datore di lavoro, di intimare una sanzione disciplinare sulla base di circostanze nuove – e diverse – rispetto a quelle contestate, e ciò in ragione dell’esigenza di tutela del diritto di difesa del lavoratore, che risulterebbe pregiudicato qualora il datore di lavoro, nel corso del giudizio, allegasse «circostanze nuove che […] implicano una diversa valutazione dei fatti addebitati […]».

Tanto ha ribadito la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 26042/2023 del 7 settembre scorso, in relazione a una fattispecie in cui un lavoratore era stato licenziato per i reati di falso e furto di carburante; sennonché, il lavoratore licenziato veniva poi assolto nel relativo processo penale per non aver commesso il fatto.

La Corte di merito, confermando la sentenza di primo grado e parimenti valorizzando il giudicato penale assolutorio per i fatti oggetto di contestazione disciplinare, aveva respinto il reclamo della società contro l’annullamento del licenziamento. La decisione veniva impugnata dalla società innanzi in sede di legittimità sul presupposto, da un lato, dell’insussistenza, nel caso di specie, dei requisiti richiesti dalle norme penali in tema di efficacia della sentenza penale nel giudizio civile (non trattandosi, nello specifico, di giudizio civile promosso dal danneggiato per le restituzioni o il risarcimento del danno, e non essendo stata la sentenza penale di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento) e, dall’altro, dell’omesso esame di taluni ed ulteriori fatti, la sussistenza tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il lavoratore licenziato.

La Cassazione, pur riconoscendo, con riferimento al primo ordine di censure, la sussistenza degli errori in diritto evidenziati nel ricorso, ha ritenuto che il dispositivo della sentenza impugnata fosse comunque conforme a diritto. E ciò, ha chiarito la Suprema Corte, in ragione del fatto che, pur in assenza dei requisiti suddetti in tema di efficacia nel giudizio civile del giudizio assolutorio penale, la sentenza di assoluzione – «mancando una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi prova» – è comunque qualificabile «come prova atipica dell’insussistenza dell’addebito disciplinare rientrante nel perimetro della parallela imputazione penale» e, pertanto, può essere legittimamente posta dal giudice a base del proprio convincimento, «se ed in quanto non smentita dal raffronto critico» (Cassazione n. 9507/2023), «ai fini della valutazione della condotta del lavoratore e della prova della giusta causa del licenziamento».

Infondata è, infine, conclude la Corte, l’asserita omessa valutazione di «circostanze» esterne rispetto alla contestazione disciplinare, e ciò in ragione del principio di immutabilità di quest’ultima, ciò che impedisce al datore di lavoro di ampliare, nel corso del giudizio, il perimetro dell’addebito.

La pronuncia in esame si colloca nel solco tracciato dalla giurisprudenza (cfr. Cassazione civile, Sez. lavoro, n. 11540/2020, n. 8293/2019; n. 19023/2018). Il tutto, alla luce dei principi di specificità ed alla immutabilità della contestazione disciplinare di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.