Le Noterelle Operative Febbraio 2025
1) ACCOMODAMENTI RAGIONEVOLI: quali i parametri attraverso i quali si determina ciò che è ragionevole diversamente da quanto non lo è?
A cura di Paolo de Berardinis e Valentina Serenelli
La normativa di riferimento (art. 17 commi 1 e 5, D.lgs. 3 maggio 2024, n. 62) ha introdotto, ed i più recenti orientamenti giurisprudenziali hanno definito i confini applicativi del criterio della “ragionevolezza degli accomodamenti” – intendendosi per tali l’insieme delle misure necessarie, pertinenti, appropriate ed adeguate volte a consentire, tendenzialmente, la conservazione del posto del lavoratore in condizione di disabilità. Questi i parametri:
1) il “tecnicamente possibile”: gli adattamenti necessari non includono modifiche dei luoghi produttivi, né mutamenti organizzativi per l’Azienda;
2) la “non eccessiva onerosità”: il sacrificio economico richiesto all’azienda non deve essere sproporzionato rispetto alla controprestazione offerta dal lavoratore(1);
3) il rispetto del generale “principio di correttezza e buona fede”(2) vale a dire la necessità di valutare anche lo “smart working” con riferimento ad attività lavorative compatibili ed idonee ad essere esercitate mediante siffatta modalità “agile” di esecuzione della prestazione.
Quanto è avvenuto è la creazione in capo al datore di lavoro di un onere aggiuntivo a quello di repêchage, vale a dire il c.d. “repechage rafforzato”.
Pertanto, l’onere della prova dovuto dal datore di lavoro attiene alla sussistenza non solo del sopravvenuto stato di inidoneità del lavoratore, per cui l’impossibilità di adibirlo sia a mansioni equivalenti sia eventualmente a quelle anche inferiori compatibili con il suo stato di salute, affermandosi l’ impossibilità di adottare gli “accomodamenti organizzativi ragionevoli” idonei a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale e buona fede e correttezza, da un lato l’ interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica, dall’altro quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’ impresa.
Con la recentissima sentenza n. 605 del 10 gennaio 2025 cit., la Corte di Cassazione ha segnato una ulteriore svolta, conferendo all’istituto del “lavoro agile” lo status di “accomodamento ragionevole”, vincolante per il datore di lavoro, rappresentando una possibile soluzione compatibile con i principi citati.
Da tutto quanto sin qui considerato, deriva che la “ragionevolezza” dell’accomodamento deve intendersi come l’esigenza, a fronte della valutazione tecnica sulla possibilità ed utilità della modificabilità della prestazione lavorativa (posto che non tutte le mansioni si prestano ad essere eseguite in forma “agile”), dello specifico ambiente di lavoro e di costi sostenibili e proporzionati per l’Azienda.
Osservazioni operative
Alla luce delle citate pronunce della Cassazione, si rende necessario per il datore di lavoro adottare un approccio strategico nella gestione delle situazioni di inidoneità sopravvenuta, totale o parziale, allo svolgimento delle mansioni del lavoratore divenuto disabile.
Di contro laddove il datore di lavoro non considerasse il “lavoro agile” nell’ampia categoria degli “accomodamenti ragionevoli”, la conseguenza è quella di qualificare come discriminatorio il rifiuto aprioristico datoriale ad accordare al lavoratore disabile siffatta modalità di esecuzione della prestazione.
Ove il datore di lavoro volesse procedere al licenziamento dovrebbe, pertanto, dimostrare di aver concretamente valutato, con esito negativo (a mezzo di perizie tecniche, preventivi di spesa, valutazioni, etc.., di cui dovrà fornire prova documentale) la possibilità di adottare tutti gli “adattamenti necessari” a consentire la conservazione del posto del lavoratore, ivi compresa – ove le mansioni lo consentano – l’adibizione allo “smart working”.
A titolo esemplificativo: l’Azienda sarà tenuta a fornire al lavoratore quegli strumenti di lavoro che gli permettano di poter continuare a svolgere le sue mansioni pur in condizioni di sopravvenuta parziale inidoneità (a titolo esemplificativo, il magazziniere che non può sollevare carichi oltre un certo peso potrebbe essere dotato di un carrello elevatore). Laddove ciò risulti tecnicamente impossibile, con specifico riguardo ad es. alle ridotte dimensioni del magazzino, alla eccessiva onerosità con riguardo al costo del macchinario, il datore di lavoro sarà tenuto a valutare, altresì, la presenza in azienda di posizioni compatibili con lo stato di salute del dipendente, ed in difetto di posizioni di livello equivalente, adibirlo
anche a mansioni di livello inferiore garantendo il medesimo livello retributivo di quelle di provenienza (art.2103 c.c., art. 42 Dl.gs. 81/2008).
Detti passaggi sono essenziali per dimostrare la legittimità del licenziamento del lavoratore in condizioni di disabilità divenuto inidoneo alla mansione, poiché l’assenza di prove adeguate in tal senso comporterebbe la qualificazione del recesso datoriale alla stregua di un licenziamento discriminatorio con applicazione delle massime tutele (reintegrazione e risarcimento del danno).
(1) Cass. civ., Sez. lavoro, 22 maggio 2024, n. 14307 – Cass. civ., Sez. lavoro, 10 gennaio 2025 n. 605.
(2) Cass. civ., Sez. lavoro, 22/05/2024, n. 14307; Cass. civ., Sez. lavoro, 10 gennaio 2025 n. 605.
2) Abuso dei permessi per assistenza ai familiari disabili e il limite qualitativo nella valutazione della condotta del dipendente (Cass. Civ., ord. 17 gennaio 2025, n. 1227).
A cura di Paolo de Berardinis e Anna Saioni
Il datore di lavoro, un’azienda operante nel settore dei trasporti, tramite un investigatore privato ha accertato che un proprio dipendente, durante la fruizione di un permesso retribuito per l’assistenza ad un familiare disabile ai sensi della legge n. 104 del 1992, svolgeva attività personali, quali acquisti presso esercizi commerciali in compagnia della coniuge.
Pertanto, l’azienda ha avviato il procedimento disciplinare che si è concluso con il licenziamento del lavoratore per giusta causa.
Il Tribunale ha annullato il licenziamento e ha disposto la reintegra del dipendente. Tuttavia, la Corte d’Appello, accogliendo i motivi di impugnazione fatti valere dal datore di lavoro, ha rilevato che la mancata assistenza al familiare con disabilità per due terzi o comunque per la metà del tempo dovuto, configura una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte del prestatore di lavoro. Nel caso concreto, l’assistenza è stata pari al 42,5% del tempo totale dei permessi, percentuale inferiore alla soglia minima richiesta dall’orientamento giurisprudenziale maggioritario. Pertanto, la Corte d’Appello ha ritenuto interrotto il nesso causale tra l’utilizzo dei permessi retribuiti e l’effettiva assistenza al familiare disabile, accertando così la sussistenza di una condotta indebita.
La controversia è stata sottoposta al vaglio della Corte di Cassazione, la quale, con ordinanza n. 1227 del 2025, ha accolto il ricorso presentato dal dipendente licenziato per presunto uso distorto dei permessi giornalieri ex legge n. 104 del 1992. La Suprema Corte ha precisato che l’assenza dal lavoro per l’assistenza ad un familiare disabile deve essere valutata non esclusivamente in termini quantitativi, ma anche
qualitativi. In tema di permessi per assistenza al familiare con handicap non può essere applicato un mero criterio aritmetico, basato sulla percentuale di tempo complessivo dedicato all’assistenza durante le giornate di permesso, al fine di valutare la sussistenza o meno del nesso causale tra l’assenza lavorativa e l’assistenza stessa.
Da una parte, la Corte ha ritenuto ricomprese nel computo del “tempo quantitativo” dedicato all’assistenza della persona con disabilità le attività strumentali ed accessorie ad essa, come il tempo impiegato per recarsi presso l’abitazione del familiare disabile, per l’acquisto di medicinali e generi alimentari, per la cura e il decoro della persona assistita, nonché per l’accompagnamento del disabile a eventi di natura sociale, religiosa o sportiva.
D’altra parte, gli Ermellini hanno evidenziato che, sotto il profilo qualitativo, devono essere considerate la portata e le finalità della condotta posta in essere dal dipendente.
Il concetto di abuso del diritto infatti implica “un esercizio del diritto per scopi diversi da quelli per i quali il diritto stesso è riconosciuto dall’ordinamento (cd. sviamento funzionale)”. Per configurare tale abuso, è necessario che coesistano due elementi:
1. l’apparente esercizio del diritto, privo di utilità rispetto alle finalità previste dalla legge;
2. l’intenzionalità o dolo del soggetto agente, finalizzato a compromettere gli interessi di terzi.
A titolo esemplificativo, si concretizza un abuso quando l’assistenza al disabile risulta volontariamente del tutto omessa, ovvero viene erogata per tempi irrisori o con modalità tali da vanificarne le finalità essenziali, oppure quando i permessi vengono utilizzati per svolgere attività estranee alle esigenze assistenziali.
In assenza di tali circostanze, il comportamento del dipendente non può essere considerato contrario ai principi di correttezza e buona fede, né qualificarsi come abuso del diritto.
Rimane, infine, fermo il principio secondo cui il datore di lavoro, salvo diverso accordo tra le parti, non può ingerirsi nella scelta dei giorni di fruizione dei permessi retribuiti, che resta esclusivamente rimessa al lavoratore, soggetta unicamente all’obbligo di comunicazione preventiva. Parimenti, non è consentito contestare lo svolgimento dell’attività assistenziale in orari non perfettamente coincidenti con il turno lavorativo del dipendente, purché venga rispettata la finalità assistenziale prevista dalla legge.
3) L’efficacia di prova documentale (anche del riconoscimento del debito) degli screenshot dei messaggi WhatsApp nel processo civile (Cass., ordinanza 18 gennaio 2025, n. 1254).
A cura di Paolo de Berardinis e Lorenzo Cola
La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 1254 del 18 gennaio 2025, ha confermato il consolidato orientamento giurisprudenziale di merito, per il quale gli screenshot delle chat WhatsApp sono utilizzabili nel processo civile, purché sia possibile verificarne la provenienza e l’affidabilità.
Il caso esaminato dalla Suprema Corte attiene ad un decreto ingiuntivo ottenuto da una società per il pagamento di serramenti. Il Giudice di prime cure ha accolto l’opposizione avverso detto provvedimento monitorio, ritenendo insufficiente la prova del credito. La Corte d’Appello, diversamente, ha riformato la decisione di primo grado, ponendo a fondamento della propria decisione il riconoscimento del debito avvenuto per il tramite di un messaggio WhatsApp preveniente dall’ingiunto. Il debitore ha quindi presentato ricorso per cassazione, contestando l’efficacia probatoria dello screenshot dei messaggi, in quanto tale copia fotografica non avrebbe garantito la certezza della provenienza della dichiarazione costituente riconoscimento del debito.
Gli Ermellini hanno quindi rigettato il ricorso, ritenendo soddisfatti i requisiti della provenienza e dell’affidabilità del documento informatico in parola. Ed infatti, secondo la Corte, i messaggi WhatsApp conservati nella memoria di un telefono cellulare sono utilizzabili quale prova documentale e, dunque, possono essere legittimamente acquisiti mediante la mera riproduzione fotografica (copia dei relativi screenshot), tenuto conto del riscontro della provenienza e attendibilità degli stessi.
L’efficacia probatoria di detti screenshot delle chat WhatsApp – al pari di quella delle e-mail – è quella delle riproduzioni informatiche e rappresentazioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. e, pertanto, tali documenti informatici, sebbene siano privi di sottoscrizione, formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se il soggetto contro il quale vengono prodotti non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime. Nel caso di specie, la provenienza dei messaggi WhatsApp è stata ritenuta attendibile, con il conseguente accertamento dell’avvenuto riconoscimento del debito, atteso che il debitore non aveva contestato la non autenticità del documento e la sua natura artefatta, ma esclusivamente l’utilizzabilità processuale dello screenshot in sé.
Osservazioni operative
Posto che l’utilizzo di WhatsApp è ormai largamente diffuso nelle interlocuzioni personali, anche nei contesti lavorativi e commerciali, e che le dichiarazioni comunicate per mezzo di detta piattaforma possono rilevare giuridicamente, se documentate attraverso l’acquisizione di uno screenshot poi prodotto in giudizio, deve tenersi particolare cautela nell’utilizzo della citata applicazione di messaggistica. Tanto vale, ancor più, nel contesto dei rapporti di lavoro, ove l’esperienza insegna che non si presta la dovuta attenzione, lasciandosi andare anche ad espressioni scurrili ovvero offensive. Si deve peraltro abbandonare la visione amichevole ovvero “informale”, a favore di una valutazione assai più rigorosa.
Allo stesso modo, lato datoriale, è di estrema rilevanza conservare, nella memoria dei telefoni cellulari personali del datore di lavoro stesso (discorso a parte deve esser fatto per i cellulari aziendali utilizzati, ad esempio, dal personale HR, poiché, in tal caso, il controllo datoriale incontra i limiti imposti dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori e dalla normativa privacy), gli screenshot dei messaggi da utilizzare – potenzialmente, in caso di contenzioso – a vantaggio dell’Azienda, vale a dire delle chat WhatsApp intercorse tra il datore (inteso in senso lato, ricomprendendosi anche il responsabile HR) ed il prestatore di lavoro. Ai fini dell’utilizzabilità in giudizio, l’Azienda dovrà assicurarsi la possibilità di acquisire (sia nel caso in cui lo screenshot sia stato “catturato” da un cellulare aziendale di cui si serve il personale HR, sia nel caso in cui tale copia fotografica sia stata acquisita dallo smartphone utilizzato dalla persona del datore di lavoro medesimo) il supporto telematico dove è avvenuta la comunicazione, ovvero una relazione tecnica che attesti la metodologia e la strumentazione utilizzata per la copia, e tanto per poter dimostrare la provenienza del messaggio dal suo autore, in caso di contestazione specifica e circostanziata da parte di quest’ultimo. La predetta dimostrazione potrà essere agevolata anche dalla visibilità, nello screenshot, del numero telefonico da cui proviene il messaggio, così da poter poi risalire, con certezza, all’intestatario di tale numero.