Le Noterelle Operative Gennaio 2025

Le Noterelle Operative Gennaio 2025

1) Il subentro negli appalti e il trasferimento d’azienda: chiarimenti dalla Corte di Cassazione (Cass., nn. 27607 e 27707 del 2024).
A cura di Paolo de Berardinis e Silvia Laurora

Il comma 3 dell’art. 29 del d.lgs. n. 276/2003, come modificato dall’art. 30 della legge n. 122/2016, rappresenta un punto di svolta nella disciplina del trasferimento d’azienda nel contesto dei subentri di appalti. L’intervento legislativo, allora, si è reso necessario per conformare l’ordinamento interno alla Direttiva 2001/23/CE, recependo i principi elaborati dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale.
In particolare, il Legislatore ha voluto risolvere una questione di compatibilità evidenziata dalla Commissione Europea. Prima della modifica normativa del 2016, l’orientamento giurisprudenziale prevalente riconosceva l’applicazione dell’art. 2112 c.c. anche ai casi di subentro nell’appalto, qualora vi fosse un passaggio di beni materiali di rilievo, tale da consentire la prosecuzione dell’attività economica (Cass. n. 17063/2015; Cass. n. 1102/2013). Tuttavia, l’assenza di criteri utili per valutare la conservazione dell’identità dell’impresa aveva portato ad incertezze applicative.
Le sentenze nn. 27607 e 27707 del 2024 della Corte di Cassazione chiariscono i confini applicativi della novella legislativa, ribadendo che il subentro in un appalto è da considerarsi, in via presuntiva, un trasferimento d’azienda, salvo che il nuovo appaltatore dimostri l’esistenza di elementi di discontinuità.
Il nuovo art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 276/2003 stabilisce che “l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda.”.
La disposizione, coerente con l’art. 2112 c.c. e con la Direttiva 2001/23/CE, pone al centro della disciplina il concetto di continuità funzionale. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha sottolineato che il trasferimento d’azienda si configura quando l’entità economica trasferita conserva la propria identità (CGUE, 12 febbraio 2009, C-466/07, Klarenberg; CGUE, 20 luglio 2017, C-416/16, Piscarreta Ricardo; CGUE 13.6.2019, C-664/2017, Ellinika Nafpigeia AE). Tale identità si verifica laddove
permanga il nesso funzionale tra i fattori produttivi trasferiti, anche in presenza di modifiche organizzative.
La Cassazione, nelle pronunce in esame, ha ribadito che il criterio guida per valutare la continuità è il nesso tra i fattori della produzione trasferiti e quelli impiegati dal nuovo appaltatore. La regola generale, dunque, è rappresentata dall’applicabilità delle tutele previste dall’art. 2112 c.c., salvo prova contraria.
Il cuore delle sentenze nn. 27607 e 27707 del 2024 risiede nell’analisi dell’eccezione. La Corte ha precisato che l’onere della prova della discontinuità ricade sull’appaltatore subentrante, il quale deve dimostrare che il complesso di elementi organizzativi e produttivi introdotti sia tale da interrompere il nesso funzionale con il precedente assetto aziendale. La presenza di una struttura organizzativa autonoma e l’assunzione del rischio d’impresa costituiscono requisiti imprescindibili per escludere il trasferimento d’azienda. La discontinuità si configura, ad esempio, quando:
– vengono introdotte nuove tecnologie o procedure operative che modificano sostanzialmente l’esecuzione dell’appalto;
– viene ristrutturata la forza lavoro, con assunzioni mirate o riduzioni significative del personale proveniente dall’appaltatore uscente;
– si registrano cambiamenti rilevanti nella tipologia di mezzi materiali utilizzati per l’attività produttiva.
La Corte, nelle sentenze in esame, ha escluso che elementi puramente formali, come l’adozione di nuove divise o cartellini di riconoscimento, possano costituire prova di discontinuità.
Osservazioni operative
Alla luce delle pronunce della Cassazione, emerge con chiarezza l’importanza di adottare un approccio strategico nella gestione dei subentri in appalti. L’appaltatore subentrante deve predisporre una documentazione completa e dettagliata che illustri le modifiche apportate, con particolare attenzione agli interventi organizzativi, tecnici e operativi che contribuiscono a definire una nuova identità d’impresa. Questa documentazione è essenziale per dimostrare la discontinuità rispetto alla gestione precedente, poiché l’assenza di prove adeguate comporta l’automatica applicazione delle tutele previste dall’art. 2112 c.c.
È inoltre necessario effettuare una due diligence accurata nelle gare d’appalto. Tale analisi consente di identificare eventuali vincoli legati alla continuità organizzativa e produttiva, permettendo di valutare in
modo preventivo i rischi di una possibile qualificazione del subentro come trasferimento d’azienda. Questa fase di verifica è fondamentale per pianificare in modo consapevole le strategie aziendali.
Per quanto attiene la gestione del personale, sebbene la riassunzione dei lavoratori già impiegati nell’appalto non sia di per sé sufficiente a escludere la discontinuità, è necessario integrare il personale nella nuova struttura organizzativa in modo coerente. Modifiche significative nelle mansioni o nella composizione della forza lavoro possono costituire elementi probanti la nuova identità d’impresa.
Un possibile strumento di tutela è costituito dall’inserimento di clausole specifiche nei contratti di appalto: queste possono definire chiaramente le responsabilità reciproche delle parti in caso di contestazioni relative al trasferimento d’azienda, offrendo un quadro di riferimento per la gestione dei rapporti contrattuali.

2) Licenziamento del lavoratore con disabilità per il superamento del normale periodo di comporto: è discriminazione indiretta (Corte d’Appello di Torino n. 604/2021 cui ha fatto seguito Cass. Civ., Sez. Lav., Ord. 7 gennaio 2025, n. 170).
A cura di Paolo de Berardinis e Anna Saioni

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 170 del 2025 è tornata ad affrontare il tema del superamento del periodo di comporto da parte di lavoratori con disabilità. La Corte di legittimità, riformando la sentenza della Corte d’Appello di Torino, n. 604 del 2021, ha ribadito che l’applicazione del medesimo periodo di comporto a lavoratori normodotati e a dipendenti con disabilità costituisce una discriminazione indiretta.
Tale principio di diritto non rappresenta una novità. Già con la sentenza n. 9095 del 2023, confermata da successive sentenze, la Corte regolatrice aveva accolto questo orientamento.
Secondo la Corte Suprema, la previsione dello stesso periodo di comporto ai lavoratori senza tener conto delle specifiche condizioni dei dipendenti con disabilità, come così definita dal diritto dell’Unione Europea (direttiva 2000/78/CE), comporta rischi di maggiore esposizione alla morbilità tipici di questo gruppo sociale di prestatori. Ciò fa sì che l’applicazione del periodo di comporto ordinario di cui al CCNL, sia nei fatti discriminatorio nei confronti dei soggetti portatori di handicap.
Argomenta la Corte: “(…) la conoscenza dello stato di disabilità del lavoratore – o la possibilità di conoscerlo secondo l’ordinaria diligenza – da parte del datore di lavoro fa sorgere l’onere datoriale – a cui non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore – di acquisire, prima di procedere al licenziamento, informazioni circa l’eventualità che le assenze per malattia del dipendente siano connesse allo stato di disabilità, al fine di individuare possibili accorgimenti ragionevoli imposti dall’art. 3, comma 3-bis, D. Lgs. n. 216 del 2003, la cui adozione presuppone l’interlocuzione ed il confronto tra le parti, che costituiscono una fase ineludibile della fattispecie complessa del licenziamento de quo”.
Nel caso della pronuncia in esame, il datore di lavoro, nonostante fosse a conoscenza della condizione di disabilità del dipendente, ha intimato a quest’ultimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto “standard”, previsto dal CCNL, senza aver preliminarmente verificato la correlazione tra le assenze per malattia e lo stato di disabilità del prestatore di lavoro. Inoltre, il datore non ha adottato alcun accomodamento ragionevole che potesse evitare il recesso, in violazione della normativa vigente.
Osservazioni operative
Per molti di coloro che operano nell’ambito delle direzioni HR delle imprese, si va profilando una reale e complessa problematica che attiene alle attività necessarie ed ai loro limiti, volte ad ottemperare a quell’onere datoriale cui la sentenza pone un riferimento fondamentale.
Come noto, nella contrattazione collettiva nazionale afferenti ai vari settori esistono testi che, rispetto a determinate malattie – ad esempio quelle oncologiche – già prevedono un allungamento del periodo di comporto. Ma questa non è sempre la situazione che si verifica ed in ogni caso la patologia oncologica non è certo l’unica che limita l’attività lavorativa.
Non solo, quante volte si è scoperto che l’ineffabile medico curante, pur sapendo che l’assenza del suo paziente è correlata ad un handicap, non ha “flaggato” il certificato!
La domanda che ci si deve porre è sul come e sul cosa fare di fronte a situazioni di malattia che, ad esempio per la loro durata, potrebbero essere la conseguenza di un’inabilità non comunicata e, pertanto, non conosciuta dal datore di lavoro.
Alcuni studiosi hanno sottolineato l’importanza di informare il lavoratore disabile sul residuo del periodo di comporto, sull’imminenza del superamento del limite massimo consentito e sulle clausole
previste dal contratto collettivo applicato. In tal modo, il dipendente viene reso consapevole della propria situazione e può agire di conseguenza (*1).
Ciò emerge anche dalla sentenza (per ora isolata) n. 181 del 2022 del Tribunale di Vicenza, che ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, sebbene le assenze fossero riconducibili alla sua situazione di handicap. Nel caso specifico, secondo il Tribunale, il datore di lavoro ha agito nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza, avendo informato la lavoratrice del numero di giorni di malattia già usufruiti e del limite massimo di comporto previsto dal CCNL. Secondo il Giudice, infatti, l’interesse del lavoratore disabile a conservare un’occupazione adeguata al proprio stato di salute deve essere bilanciato con l’interesse del datore di lavoro ad ottenere una prestazione lavorativa utile.
Ci permettiamo di aggiungere che, seppure come noto al datore di lavoro è preclusa la conoscibilità della diagnosi medica, tanto non esclude che al lavoratore possa essere inviata una comunicazione con la quale il medesimo datore di lavoro, riferendo quali sono i possibili scenari, faccia chiara la necessità di ottenere, nei limiti del conoscibile, maggiori informazioni sulla condizione di salute del lavoratore.
In tal modo, possono essere ottemperati gli obblighi di correttezza e buona fede, ottenendosi informazioni utili “circa l’eventualità che le assenze per malattia del dipendente siano connesse allo stato di disabilità”, come insegna la Corte.

(*1) Proietti M., Illegittimo il licenziamento del portatore di handicap se supera il comporto, 2024