Rassegna Stampa dBM

SALARIO MINIMO LEGALE: UN DIBATTITO ANCORA ATTUALE, a cura di Lorenzo Cola

Il nostro Studio in vari modi, con interviste radiotelevisive ovvero  radiofoniche, è stato richiesto di “dire la sua” in merito alla questione del salario minimo.

Quanto segue compendia ciò che è stato detto che, nel nostro piccolo, vuole dare anche un suo originale contributo sul come poter affrontare questo aspetto, tenendo d’occhio il costo del lavoro.

Ancora oggi ci troviamo a dover affrontare il problema del c.d. “lavoro povero”. Che in Italia esistano categorie di lavoratori non adeguatamente tutelate sotto il profilo economico è un dato di fatto.

Seppur al livello costituzionale l’art. 36 sancisca il diritto del prestatore di lavoro “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, tale diritto non è pienamente garantito a tutti i lavoratori.

Eppure gli strumenti di attuazione ci sono. Basti pensare ai contratti collettivi, i quali, tuttavia, non possono assumere la funzione di fonte del diritto pensata dai Padri Costituenti, considerando che all’art. 39, 4° co., Cost. non ha mai fatto seguito una legge di rango primario che attuasse il disposto costituzionale e che, pertanto, i contratti collettivi di categoria non hanno efficacia erga omnes.

Il problema si pone dunque per i lavoratori non garantiti dalla “copertura” di un contratto collettivo, diffusi soprattutto nell’ambito nella categoria del lavoro domestico e del lavoro agricolo.

Sulla scorta dell’esperienza di Paesi esteri come Gran Bretagna, Francia e Germania, il legislatore nazionale ha più volte, specialmente nell’ultimo decennio, pensato ad introdurre un salario minimo erga omnes fissato per legge, a tutela di tutti i lavoratori.

L’ultima proposta legislativa di fissazione di un salario minimo legale, presentata alla Camera dei Deputati il 4 luglio 2023 e “bocciata” dalla maggioranza, prevedeva un livello di retribuzione minima oraria “universale” fissata nella misura di 9 euro all’ora.

Analizzando la questione da un punto di vista prettamente ed esclusivamente tecnico, si rileva che la fissazione ex lege di un minimo salariale “sufficiente” ex art. 36 Cost., nella misura di 9 euro all’ora,  produrrebbe un effetto di spiazzamento dell’intera scala parametrale delle retribuzioni e degli inquadramenti stabiliti dalla contrattazione collettiva.

Ed infatti, l’importo anzidetto risulta troppo elevato rispetto alla media di quelli stabiliti dai contratti collettivi e provocherebbe inevitabili effetti negativi sulla tenuta delle piccole imprese. L’aumento del costo del lavoro relativo alle qualifiche più basse indurrebbe, altresì, le parti sociali a rinegoziare al rialzo la retribuzione “proporzionata” delle qualifiche superiori, in modo tale da permettere di mantenere congrue differenze salariali tra i vari livelli professionali.

Un problema, quello dell’aumento del costo del lavoro, che ben potrebbe essere superato utilizzando gli strumenti che l’ordinamento pone a disposizione delle imprese, quali, primo fra tutti, il welfare. Un massiccio impiego, studiato e strutturato, dei c.d. fringe benefits, ed in generale di misure di welfare aziendale, consentirebbe da un lato, agli imprenditori, di ottenere un importante risparmio economico, dall’altro, ai lavoratori, di soddisfare direttamente i propri bisogni della vita quotidiana e di dar voce alle nuove esigenze che emergono dalle recenti analisi del mercato del lavoro.

Soluzione, quest’ultima, che implicherebbe un profondo rinnovamento della visione del “fare impresa”, un cambiamento sul quale non solo gli imprenditori, ma anche le parti sociali dovrebbero lavorare ed imparare ad apprezzarne i benefici. Ma questo è un discorso che da solo meriterebbe un notevole approfondimento.

Tornando alla proposta di legge sul salario minimo, un’importante criticità è rappresentata dal fatto che l’importo fisso ed indifferenziato, per tutti i settori e territori, di 9 euro all’ora introdurrebbe una insostenibile rigidità ed uniformità, che andrebbe anche a scapito di categorie di lavoratori, quali i giovani e gli apprendisti, oggettivamente esigenti di flessibilità retributiva. Le regole dell’economia di mercato, infatti, non permettono che la retribuzione possa essere una variabile indipendente.

Ed allora, lo strumento più efficace per fissare i livelli di retribuzione “sufficiente” minima restano i contratti collettivi, in quanto essi sono il frutto di una genuina dialettica di interessi che permette di garantire l’equilibrio del mercato del lavoro.

Pertanto, una valida alternativa al salario minimo legale in misura fissa erga omnes può essere rappresentata sì da un intervento legislativo, ma che faccia rinvio non recettizio ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni di categoria comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Ciò che, in effetti, ha trovato anche l’avallo della Corte Costituzionale (sentenza n. 51/2015).

 

https://www.ildiariodellavoro.it/salario-minimo-il-parere-del-legale-piu-fringe-benefits-e-rinvio-ai-contratti-per-aumentare-le-retribuzioni/