Rassegna Stampa dBM

PRESCRIZIONE DEI CREDITI DI LAVORO: UN COORDINAMENTO NECESSARIO, a cura di Paolo de Berardinis ed Ettore Merendino

Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della l. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della l. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

In questi termini perentori, si espressa la Corte di Cassazione con la pronuncia n. 26246/2022, dettando un principio di diritto che, collegandosi a quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 63/1966, ne rilegge le conseguenze concrete alla luce delle “nuove” regole dettate in materia di licenziamenti, dalla Legge Fornero e dal Jobs Act.

Senza che vi sia in questa sede la necessità di una disamina sull’evoluzione del sistema delle tutele avverso il licenziamento illegittimo, può precisarsi che, fino all’entrata in vigore della c.d. Legge Fornero, la sanzione della reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato costituiva la regola, in particolare per quelle imprese con più di 15 dipendenti. È questa la ragione che aveva spinto la giurisprudenza, a partire dalla sentenza sopracitata, a statuire che la prescrizione quinquennale dei crediti di lavoro iniziava a decorrere, anche in costanza di rapporto, dalla maturazione di ogni singolo diritto. In altri termini, la tutela reintegratoria piena, valevole come regola generale rispetto ad un licenziamento illegittimo, garantiva al rapporto di lavoro quella stabilità tale da consentire ai dipendenti di far valere i propri diritti, senza temere di perdere il posto.

Con l’entrata in vigore della L. n. 92/2012, si sarebbe dovuto assistere, almeno queste erano le intenzioni del Legislatore (e del Legislatore delegato), ad una radicale inversione, culminata con l’abolizione del vecchio testo dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ad opera del Jobs Act, per tutti i dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015. Oggi, infatti, quantomeno nei testi di Legge (art. 18 L. 300/1970 ed artt. 2 ss. D. Lgs. 23/2015), in caso di licenziamento illegittimo la sanzione ordinaria è di tipo economico (indennità da corrispondere al lavoratore), mentre la reintegrazione è divenuta l’eccezione, applicabile solo in casi limite quali, ad esempio, il licenziamento ritorsivo o l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento etc. Tanto in ragion della necessità di consentire alle imprese di prevedere, con un sufficiente grado di certezza, il costo di un licenziamento

E sino qui, a parere di chi scrive, la massima della Corte di Cassazione riportata all’inizio di questo breve contributo, avrebbe ancora un suo condivisibile ambito di operatività.

Tuttavia, nel quadro che si è descritto, occorre tenere conto dello “smantellamento” progressivo dell’art. 18 L. 300/1970, come modificato dalla Legge Fornero, operato dalla Corte Costituzionale in numerose pronunce (si vedano Corte Cost. n. 59/2021 e Corte Cost. n. 125/2022), per mezzo delle quali, di fatto, la reintegrazione, quale tutela avverso il licenziamento illegittimo, torna ad applicarsi come si (ri)trattasse di una misura generale. Al contempo, la tutela indennitaria trova applicazione solo in talune ipotesi connotate dalla minore gravità del motivo di illegittimità del licenziamento. La stessa sorte, ad avviso di chi scrive, è già segnata anche per il D. Lgs. 23/2015 (c.d. Jobs Act) che, peraltro, ha già subito, anche se al momento solo in via marginale, l’intervento del Giudice delle Leggi (ad esempio Corte Cost. 194/2018; mentre è recentissima l’ordinanza n. 9530/2023 della Cassazione che proprio in materia di reintegrazione ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, articolo 2, comma 1).

In altre parole, se è vero che nelle intenzioni del Legislatore, vi era quella di ridurre la reintegrazione a sanzione di applicazione residuale, nel diritto vivente, a seguito delle pronunce della Corte Costituzionale, la stessa è tornata ad avere una applicazione quasi generale, conferendo nuovamente, al rapporto di lavoro, quel grado di stabilità sufficiente, ad avviso di chi scrive, a non temere di perdere definitivamente il posto, a fronte della rivendicazione dei propri diritti.

Ma allora, se così è, per le aziende con più di 15 dipendenti, la prescrizione dovrebbe decorrere nel corso del rapporto di lavoro, non rinvenendosi alcuna giustificazione per cui posporre tale momento sino alla cessazione dello stesso.

Quanto sopra, anche in considerazione del fatto che l’interpretazione avallata dalla Cassazione, comporta una serie di conseguenze particolarmente gravose per le Aziende, anche da un punto di vista pratico (si pensi, banalmente, alla necessità di conservare documentazione in perpetuo al fine di poter dimostrare il pagamento della retribuzione).

La sensazione, e non solo quella, è che le massime fonti del sistema giudiziario viaggino su binari diversi. Sicché ciò che l’una (il Giudice delle Leggi) afferma, non è valutato dall’altra (la Corte di Legittimità). Il risultato è, ancora una volta, l’incertezza.

Ci si auspica, quindi, un ripensamento della Corte di Cassazione in tema di prescrizione dei crediti di lavoro, che consenta al diritto vivente di dettare principi coerenti con le conseguenze proprie delle pronunce della Corte Costituzionale.

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