Noterelle Operative

Novembre 2022

Noterelle Operative – Novembre 2022

Licenziamento voluto/risoluzione consensuale/ (non) diritto alla Naspi (Trib. Udine sent. n. del 30 settembre 2020 n. 106)/Contra (Trib. Arezzo sent. 12 maggio 2021 n. 169)

La sentenza del Tribunale di Udine

Il Tribunale di Udine ha affermato che qualora il datore di lavoro sia tenuto a sopportare l’onere del pagamento del c.d. ticket licenziamento, esclusivamente perché il lavoratore, anziché dimettersi, senza costi per l’azienda, abbia posto quest’ultima nelle condizioni di risolvere il rapporto lavorativo, le spese sostenute dall’azienda relativamente al predetto ticket non possono che essere addossate al lavoratore medesimo. (Nel caso in questione, nella fase istruttoria era emerso che l’iniziativa di porre fine al rapporto di lavoro riguardasse esclusivamente dal lavoratore il quale, a fronte di un rifiuto oppostogli dal datore di lavoro, si assentava in maniera ingiustificata dal lavoro, al fine di costringere l’azienda a procedere con il licenziamento).

La soluzione è stata ulteriormente ribadita nella più recente sentenza del medesimo Tribunale del 27 maggio 2022, nella quale si precisa che, in taluni atteggiamenti posti in essere dipendenti, è ravvisabile la risoluzione di fatto del rapporto. Rileva in merito la sintomatica manifestazione della volontà di non dar più seguito al contratto di lavoro. In tal caso il rispetto delle procedure telematiche di cui all’art. 26 del D.lgs. n. 151/2015 non rileva nel senso che ciò che conta non è la forma ma la sostanza degli accadimenti.

La sentenza del Tribunale di Arezzo

La questione trae origine da un licenziamento comminato a fronte di una fattispecie complessa, iniziata dalla richiesta del lavoratore di essere licenziato, e terminata con comportamenti diretti, in modo non equivoco, a provocare il recesso datoriale.

Con la decisione in commento, il Tribunale di Arezzo giunge a una conclusione opposta rispetto a quella cui era in precedenza giunto il Tribunale di Udine (cfr. supra); negando al datore di lavoro il risarcimento del danno per le spese affrontate per pagare il ticket di licenziamento, nonché le ore di lavoro straordinario prestate dai colleghi di lavoro per sopperire all’assenza dell’interessato e così dicasi per le spese sostenute per la formazione dei dipendenti impiegati in sostituzione.

Osservazioni operative

Poiché l’Italia è il Paese del “possibile giuridico”, dobbiamo assistere (anche) al licenziamento provocato: come? In genere con un’assenza ingiustificata che si protrae oltre il termine previsto nel CCNL per l’erogazione della sanzione espulsiva. Il punto problematico è quello dell’individuazione del comportamento “malandrino”. La posta in gioco è il costo del ticket che il datore è tenuto a versare laddove, all’esito del procedimento disciplinare,  licenzi il lavoratore. Non è poca cosa, se riguarda un datore di lavoro di lavoro non di piccole dimensioni, ovvero se l’accadimento è diffuso. A questo si aggiunge il costo che la collettività deve accollarsi rispetto a chi, furbamente, si appropria sia di somme che di contributi previdenziali che non spetterebbero affatto. Solo per fornire un dato, alla Naspi si aggiungono i contributi che seppur figurativi avranno un peso all’atto del pensionamento.

La domanda è allora: ma come ci si può sottrarre a simili, tutt’altro che pregevoli, comportamenti?

Vi sono due diverse strade che possono essere percorse, con accortezza e procurandosi tutti gli elementi per, se del caso, servirsene in giudizio.

La prima consiste nel far emergere la condotta dell’interessato inviandogli lettere che specificano qual è il suo comportamento, che lo invitano a riprendere servizio, ed infine risolvendo il rapporto non con il licenziamento ma prendendo atto della volontà del lavoratore, per cui comunicandogli la risoluzione del contratto per fatti concludenti.

La seconda, prevede la contestazione disciplinare, quindi il recesso facendo chiaro che il costo del ticket sarà addossato al prestatore, per cui compensandolo con le competenze di fine rapporto e il TFR.

L’Italia è un Paese molto complicato…

 

Il periodo di prova il decreto trasparenza, la sua legittimità.

Il D.lgs n. 104/2022 all’art. 7 comma 1 si interessa, tra l’altro, del periodo di prova prescrivendo che lo stesso non può avere una durata superiore a mesi sei. Sembrerebbe che non vi siano chissà quali novità: ma è proprio così? Proviamo a fare alcune riflessioni, come sempre, operative.

Osservazioni operative

Sembrerà a molti una stranezza, visto che il recesso dovuto al mancato superamento della prova è uno dei pochi casi di licenziamento ad nutum, che non ha bisogno di motivazione o di particolari dimostrazioni, riferire che più spesso di quanto si possa pensare proprio questa risoluzione è stata dai giudici ritenuta illegittima.

I motivi sono stati più di uno, si va dalla apposizione del patto di prova in momento diverso dalla assunzione ovvero dall’inizio di fatto della prestazione, sino alla mancata effettiva sperimentazione a causa del mutamento delle mansioni inizialmente previste, ma non solo.

Muoviamo dalla disposizione sopra citata, relativa alla durata della prova, ed in particolare dalla durata massima della stessa fissata come detto in sei mesi.

Ebbene, questo termine come si computa, si tratta di sei mesi di calendario? O, diversamente, i sei mesi riguardano la prestazione effettiva? E, ancora, nel caso in cui il ccnl preveda che la durata del periodo in essere sia solo di lavoro effettivo come ci si comporterà?

Primo aspetto, poiché la legge prescrive il termine in questione senza altro precisare quanto alla sua durata, allora si tratta di giorni di calendario. Tanto prevarrà rispetto a diverse disposizioni contrattuali collettive, che vanno giudicate illegittime, laddove le stesse dispongano una durata di fatto superiore ai sei mesi poiché considerano i giorni di prestazione effettiva. Naturalmente le disposizioni C.C.N.L. saranno, invece, legittime se – pur riguardando i giorni di prestazione- il periodo di prova resta comunque contenuto nei sei mesi.

Ed ancora, basterà apporre l’indicazione della durata conformemente alla norma  perché, formalmente, il patto di prova possa essere ritenuto correttamente apposto? A leggere la novella disposizione sembrerebbe di si, ma non è così, nel senso che il rispetto del termine e la sua tempestiva fissazione comporterà il rispetto del decreto trasparenza, ma ciò potrebbe non essere sufficiente, laddove la prova venga ritenuta non superata per ragioni legate alla prestazione, come tante pronunzie hanno ritenuto.

Il motivo di quanto detto trova la sua spiegazione in alcuni passaggi logico-giuridici che possono sintetizzarsi come di seguito:

1. L’assunzione di qualunque lavoratore avviene perché egli svolga talune mansioni;

2. Le mansioni a loro volta danno luogo all’inquadramento contrattuale, per cui alla attribuzione di un certo livello, cui si collega il periodo di prova e la sua durata;

3. Il  c.c.n.l. applicato può, o meno, prevedere in sede di declaratoria, la descrizione della mansione attribuita collegandola all’inquadramento. Se lo fa allora, ai fini dei quali stiamo parlando, basterà che nella lettera di assunzione venga richiamata la previsione contrattuale collettiva afferente (declaratoria) il livello di e da ciò conseguirà, anche, la individuazione dei compiti assegnati.

Diversamente, sarà necessario descrivere, anche a mezzo un allegato (la c.d. Job Description) oppure nella stessa lettera-contratto, le mansioni che il prestatore è tenuto a disimpegnare. Non vi è necessità di specificare le mansioni in modo particolarmente dettagliato, basterà che le stesse siano individuabili nella loro sostanza;

4. Solo se le mansioni di cui si dice saranno, in un modo o nell’altro, conoscibili ex ante allora il periodo di prova di cui si tratta sarà valido. Questo perché la norma contenuta nell’art.  2096 cod. civ. altro non dice se non che le parti devono poter, rispettivamente, fare e concedere l’esperimento della prova. Non l’esperimento di qualsivoglia prova ma solo quella attinente ai compiti assegnati. Per cui come potrebbe il giudice, al quale fosse rimessosi sulla legittimità della risoluzione prova, ritenere che la prova stessa sia effettivamente avvenuta, se non vi è traccia di quali erano le mansioni per le quali l’esperimento andava compiuto? Se tanto non avviene allora il periodo di prova è invalido.

Va fatta molta attenzione agli aspetti ora indicati, in quanto la loro violazione produce una risoluzione del contratto di lavoro subordinato illegittima, con ogni indesiderata conseguenza.