Il ‘fatto materiale’ nel Jobs Act

L'interpretazione della Suprema Corte di Cassazione

Il ‘fatto materiale’ nel Jobs Act secondo la Suprema Corte di Cassazione

Con sentenza n. 12174 dell’8 maggio 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “ai fini della pronuncia di cui all’art. 3, comma 2, D.lgs. nr. 23 del 2015, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare”.

Si tratta di una pronuncia di non poco conto. Essa, invero, potrebbe fornire ai Giudici di merito una “chiave di lettura” con cui allargare l’ambito di effettiva operatività dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015, c.d. “Jobs Act” (per una prima conferma di tale tendenza, v. App. Torino, 8 gennaio 2019, n. 686).

Trascriviamo, per maggiore chiarezza, la parte di norma che qui interessa: “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore …”.

Orbene, da un confronto letterale tra il dictum dei Giudici di legittimità ed il testo di legge, si evince la chiara intenzione della Suprema Corte di equiparare al “fatto materialmente insussistente” anche il “fatto materialmente sussistente ma privo del requisito dell’antigiuridicità”.

E ciò sebbene sia stata la stessa Suprema Corte a rilevare, in apertura della motivazione, che:

– seppure “l’articolazione delle tutele” di cui al d.lgs. n. 23/2015 “richiama … nel suo impianto generale … quella già intrapresa dalla legge nr. 92 del 2012 di modifica dell’art. 18 della legge nr. 300 del 1970, anche nella sua logica di ritenere la reintegrazione come residuale rispetto alla tutela indennitaria”;

– tuttavia, “in un caso la reintegrazione è collegata all’insussistenza del ‘fatto materiale contestato’ (D.lgs. n. 23 del 2015), nell’altro, all’insussistenza del ‘fatto contestato’ (art. 18 cit.)”.

Pertanto, se all’alba del Jobs Act si poteva ritenere che soltanto laddove (i) il lavoratore non avesse commesso il “fatto” per come descritto nella lettera di contestazione, ovvero (ii) il “fatto” non fosse stato commesso dal lavoratore destinatario della contestazione, ovvero ancora (iii) il “fatto” contestato divergesse, nei suoi tratti essenziali, dal “fatto” dimostrato in giudizio, all’indomani della pronunzia in commento si rischia di assistere ad una vera e propria sovrapposizione della disciplina sub art. 18 St. Lav. (come modificato dalla “Legge Fornero”) e quella sub art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015.

Ciò è acclarato proprio dal passaggio in cui il Supremo Collegio ritiene “indubitabile [sic!] che le espressioni utilizzate (id est: fatto materiale contestato) non possano che riferirsi alla stessa nozione di ‘fatto contestato’ come elaborata dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al comma 4 dell’art. 18 della legge nr. 300 del 1970 e che costituisce, all’attualità, diritto vivente”.

Nel perorare la propria tesi della “sovrapponibilità” tra le due discipline in commento, il Supremo Collegio sostiene che “qualsivoglia giudizio di responsabilità … richiede per il fatto materiale ascritto, dal punto di vista soggettivo, la riferibilità dello stesso all’agente e, da quello oggettivo, la riconducibilità del medesimo nell’ambito delle azioni giuridicamente apprezzabili come fonte di responsabilità”.

Ma è proprio quest’ultimo aspetto che, nella riforma del 2015, il Legislatore ha inteso posporre rispetto all’effettiva sussistenza di un notevole inadempimento o grave motivo ritenuti dal datore di lavoro idonei a cagionare un nocumento (e, dunque, a prescindere dal concretizzarsi di un “danno” in senso proprio: cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza del 27 febbraio 2014, n. 4723), ovvero a ledere il legame fiduciario che lo lega al lavoratore, ovvero ancora a porre in dubbio la futura correttezza di quest’ultimo nell’adempimento della propria prestazione lavorativa.