Appunti circa la prova delle esigenze che giustificano il trasferimento del lavoratore
Ai sensi dell’art. 2103 Cod. Civ., tanto nella sua versione vigente ante 25 giugno 2015 (cfr. art. 2103, comma 8) quanto nella sua versione vigente post 25 giugno 2015 (cfr. il precedente art. 2103, comma 1), sancisce che “il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.
Secondo una certa giurisprudenza di merito, l’onere della prova della “ragione” che ha dato – o non ha dato – luogo al trasferimento, indipendentemente da quale ne sia la natura (i.e.: tecnica, organizzativa o produttiva), incombe sul solo datore di lavoro, il quale ne dovrà dimostrare la sussistenza sia con riferimento all’unità “a qua” che all’unità “ad quem” (così, Trib. Matera, Sez. Lav., 1° maggio 2017; contra, App. Milano, Sez. Lav., 6 agosto 2003).
Con sentenza n. 11180 del 23 aprile 2019, la Suprema Corte di Cassazione si è meglio soffermata sui contenuti che tale onere della prova deve rispettare, pronunciandosi su una fattispecie alquanto interessante. Ne ripercorriamo, brevemente, i tratti salienti.
Una lavoratrice assunta da Poste Italiane S.p.A. con contratto di lavoro a termine, impugnava quest’ultimo per essere stato illegittimamente stipulato, domandando la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e la riammissione in servizio alle medesime condizioni, anche di luogo, contenute nel contratto di lavoro a termine.
Il giudizio così incardinato dalla lavoratrice si concludeva con la condanna di Poste Italiane a riammettere la dipendente in servizio “nelle precedenti condizioni di luogo e mansioni”. Ciononostante, Poste Italiane non ottemperava integralmente al dictum giudiziale, rilevando che la riammissione in servizio della dipendente presso l’originaria sede di lavoro (sita nel comune di Sora) era divenuta impossibile a causa di un’eccedenza di organico (pari al 109%) ivi registrata, come da elenco informatico versato in atti.
Pertanto, Poste Italiane richiamava un Accordo Sindacale sottoscritto in data 29 luglio 2004, che qualifica l’eccedenza di personale come “ragione” per il trasferimento del personale dipendente, e, dopo aver riammesso in servizio la dipendente, la trasferiva presso altra sede (sita nel Comune di Ariano nel Polesine).
La lavoratrice, però, rifiutava il trasferimento, di modo che Poste Italiane ne deliberava il licenziamento.
Il licenziamento così intimato veniva impugnato dalla lavoratrice dinnanzi alla competente Autorità Giudiziaria, chiedendo che ne fosse dichiarata l’illegittimità con ogni migliore statuizione. Il Tribunale del merito rigettava le richieste della lavoratrice, mentre la Corte territoriale, riformando la pronunzia di prime cure, le accoglieva.
Tale ultima pronunzia veniva confermata dai Giudici di legittimità e ciò, in buona sostanza, perché “non esisteva un positivo riscontro dell’indicata eccedenza”.
In effetti, la Società aveva incentrato la propria difesa unicamente sul fatto che l’“eccedentarietà” di personale costituisse una valida ragione ex art. 2103 Cod. Civ., in quanto prevista dall’Accordo Sindacale del 29 luglio 2004. E, tuttavia, non vi erano “altri dati, documentali o fornibili con testimonianze, che confermassero la … veridicità” di quanto riportato nell’elenco informatico.
Inoltre, i Giudici di legittimità ritenevano che, nel caso di specie, il rifiuto della lavoratrice fosse legittimo anche sotto il profilo dell’art. 1460 Cod. Civ.. Ed infatti, l’obbligazione di riammettere la lavoratrice in servizio presso l’originaria sede di lavoro costituiva un’obbligazione di non scarsa importanza ed il suo inadempimento, da parte della Società datrice di lavoro, ben legittimava il ricorso all’istituto della c.d. “eccezione di inadempimento”.