Rassegna Stampa dBM

Indennità sostitutiva delle ferie non godute: onere della prova e spunti pratici, a cura di Paolo de Berardinis e Ettore Merendino

È del 18 gennaio 2024 la già celebre sentenza della Corte di Giustizia Europea (sentenza C-218/2022) che ha stabilito l’incompatibilità con il diritto comunitario di una norma di diritto interno che, per ragioni di contenimento della spesa pubblica, comprima il diritto dei lavoratori a ricevere, alla cessazione del rapporto di lavoro, l’indennità sostitutiva delle ferie non godute.

Anche per il settore del pubblico impiego, dunque, all’estinzione del rapporto, consegue la c.d. monetizzazione dei periodi di riposo non fruiti, principio già da tempo valido nel settore privato.

Il tutto, sempre che il datore di lavoro non dimostri, con onere della prova interamente a suo carico, “di aver esercitato tutta la diligenza necessaria affinché il lavoratore sia effettivamente in condizione di fruire delle ferie annuali retribuite alle quali aveva diritto”.

Ed ecco che, anche per gli Enti Pubblici, come per le Aziende private, si pone il quesito di come dimostrare il rispetto della condizione citata. Problematica, questa, dall’importante risvolto pratico, atteso che l’indennità in parola è soggetta al pagamento dei contributi, rileva ai fini del calcolo del TFR e la sua prescrizione, alla luce del più recente orientamento giurisprudenziale, decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, costituendo, quindi, un’importante voce di costo per la parte datoriale.

In merito, occorre operare una distinzione di carattere sistematico.

Per quei lavoratori “del fare” che non godono della gestione, nemmeno parziale, del proprio tempo di lavoro (si pensi ad esempio ai lavoratori turnisti), tale prova, come richiesto dalla giurisprudenza nazionale, deve essere data in modo rigoroso, attraverso la dimostrazione: a) di avere invitato il lavoratore a godere delle ferie in modo consono ed in tempo utile a garantire che le stesse siano ancora utili a consentire all’interessato il recupero psico-fisico cui sono volte a contribuire (è opportuno che tale invito sia fatto per iscritto, così da poterne dare evidenza in giudizio); b) di aver nel contempo reso edotto il dipendente del fatto che, se egli non ne fruisce, tali ferie andranno perse al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato (cfr. Cass. Civ. Sez. L. n. 32807/2023).

Diversamente, per quei lavoratori che, per tipologia di mansioni o per livello d’inquadramento, hanno una gestione materiale, anche parziale, del proprio tempo di lavoro (si pensi ai Dirigenti, ai Quadri o a figure professionali quali i venditori), la prova in parola potrebbe essere raggiunta, a parere di chi scrive, anche in altro modo. La categoria di coloro che autoregolano il proprio tempo di lavoro, del resto, è in continua espansione, atteso che il lavoro moderno è sempre più caratterizzato dall’utilizzo di strumenti di flessibilità ed orientato al risultato, piuttosto che alla quantità di lavoro disimpegnato.

In particolare, utilizzando il sistema delle presunzioni, e fermo restando l’onere di dimostrare che l’organizzazione del lavoro e le esigenze del servizio cui il lavoratore era preposto fossero tali da consentire il godimento delle ferie, potrebbero essere valorizzate talune circostanze, quali ad esempio: a) il fatto che nell’unità produttiva o area di competenza, tutti i colleghi del prestatore abbiano fruito delle ferie; b) l’assenza di rifiuti a formali richieste fatte pervenire nel corso del rapporto; c) l’aver attribuito autonomia ai dipendenti nella gestione del loro tempo di lavoro, senza un esercizio costante del potere organizzativo; d) l’essersi avvalso, il datore di lavoro, di strumenti di flessibilità, in tema di orario di lavoro.

Non sembri pleonastica un’ultima osservazione che attiene all’ordinata conservazione degli elementi dei quali si è detto, per favorirne una pronta reperibilità.

 

Pubblicato su Diritto e Affari il 1.3.2024

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