Rassegna Stampa dBM

Periodo di comporto e disabilità: il punto della situazione, a cura di Ettore Merendino

Sono trascorsi nove mesi dalla sentenza n. 9095 del 31 marzo 2023, con cui la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, in recepimento di un orientamento comunitario, o si dovrebbe dire “unionale”, ha stabilito che “In tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio”.

Enunciando tale principio, la Suprema Corte ha ritenuto indirettamente discriminatoria, non tanto la condotta del datore di lavoro che, invero, si era limitato ad applicare pedissequamente il CCNL, quanto, piuttosto, lo stesso CCNL che non prevedeva un periodo di conservazione del posto di lavoro ad hoc, per le assenze dei lavoratori disabili cagionate dalla loro particolare condizione.

Senonché, le conseguenze negative di tale mancanza sono state poste a carico del singolo datore di lavoro, ossia un soggetto diverso da chi è direttamente responsabile della stesura del CCNL, le parti sociali.

Ebbene, a seguito di tale pronuncia, il principio di diritto, certamente condivisibile nella sua purezza astratta, è stato recepito ed applicato da diverse corti di merito che, puntualmente, hanno dichiarato la nullità dei provvedimenti espulsivi, condannando i datori di lavoro a reintegrare i prestatori disabili licenziati per superamento del periodo di comporto (cfr. ad esempio Corte d’Appello Milano, Sez. lavoro, Sent., 11/07/2023, n. 758; Tribunale Milano, Sez. lavoro, Sent., 25/08/2023, n. 2756; Corte d’Appello Roma, Sez. lavoro, Sent., 27/11/2023, n. 3716).

Avviene ora che, con la recente sentenza n. 44/2023 del Tribunale di Rovereto, Sez. Lavoro, si è decisamente andati oltre, applicando il principio in parola ad un caso in cui la disabilità del dipendente non era stata nemmeno accertata con provvedimento amministrativo, di talché avrebbe dovuto essere il datore di lavoro, non si sa bene come, a riconoscere la condizione di disabilità al dipendente (non si comprende se detto riconoscimento avrebbe dovuto riguardare esclusivamente la conservazione del posto di lavoro, ovvero tutta la speciale disciplina). In particolare, relativamente alle assenze fatte registrare da tale lavoratore, il medesimo datore era dunque tenuto a considerare un diverso periodo di comporto che però non era previsto dal CCNL applicato.

Non sono poche allora le incertezze che discendono dalle pronunce che si sono sopra indicate, incertezze in primo luogo che riguardano tutte quelle aziende che, legittimamente, applicano Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro che non prevedono due distinti periodi di comporto. E pertanto, in tali casi, quale dovrebbe essere il riferimento da utilizzare nel caso di un lavoratore affetto da disabilità?

Risposte a tale interrogativo non se ne rinvengono nelle sentenze esaminate, che si limitano a dichiarare la nullità dei licenziamenti irrogati, condannando le aziende esposte a gravose conseguenze, anche di tipo economico. Il tutto, si badi, in assenza di una condotta colposa delle stesse, atteso che il problema è stato generato dall’applicazione dei Contratti Collettivi di Lavoro.

Ma se così è, ad avviso di chi scrive, dovrebbe trovare posto anche in quest’ambito, un concetto di origine prettamente penale, ossia quello dell’esigibilità della condotta, istituto che consentirebbe di ritenere legittime le condotte di chi, non potendo concretamente rifarsi ad una regola diversa, si è limitato ad applicare quella che le norme gli imponevano, pur se dette regole risultano essere ex post discriminatorie: quale altra condotta, del resto, poteva o doveva imporsi al datore di lavoro?

In altri termini, avallando l’interpretazione letterale del principio enunciato dalla Suprema Corte si corre il rischio concreto di lasciare le imprese nella totale incertezza, senza canoni di comportamento prestabiliti e senza la possibilità comprendere l’esistenza di rischi, come detto rilevanti.

Per tale ragione, auspicando che le parti sociali si adeguino quanto prima alle nuove regole del diritto vivente dettate dalla giurisprudenza, occorre, ancora di più, valutare con maggiore e scrupolosa attenzione ogni singolo caso, al fine di individuare soluzioni specifiche ed alternative, volte al contemperamento di tutti gli interessi in gioco.

Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, la possibilità di considerare, ove previsto da C.C.N.L. differenti rispetto a quello applicato, il periodo di comporto diverso stabilito da tale ulteriore contrattazione collettiva. Tanto sulla scorta di un principio di diritto, in passato più volte applicato dalla giurisprudenza, in ragione del quale qualora, in materia di comporto, nulla era previsto dal contratto collettivo nazionale applicato al rapporto di lavoro in esame, il giudice, utilizzando il criterio dell’equità, poteva far riferimento a disposizioni applicate in settori simili rispetto a quello diretto interesse.

In conclusione, come sovente accade nel nostro Paese, poche certezze e molti punti d’ombra che, ancora una volta, le aziende sono chiamate ad affrontare e risolvere ex se, laddove una corretta applicazione della tutela assistenziale alle categorie più fragili, di cui all’art. 38 della Costituzione, dovrebbe vedere lo Stato quale il primo attore, attento ai bisogni della popolazione, senza surrogare a sé stesso il sistema privato che, come noto, già assolve ad una parte del c.d. Welfare state.

 

PUBBLICATO SU “IL DIARIO DEL LAVORO” IL 9.1.2024

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