Noterelle operative – Giugno 2023
- Licenziamento per perdita della capacità lavorativa del dipendente in età avanzata (Corte di Cassazione, 28 aprile 2023, n. 11248)
Con la sentenza indicata la Suprema Corte mette la parola fine ad una lunga e complessa vicenda, afferente il licenziamento di un fisioterapista, avvenuto a causa della perdita della capacità lavorativa.
La questione attiene al licenziamento per sopravvenuta incapacità lavorativa o perdita parziale di quelle specifiche capacità che servono a disimpegnare il servizio. In primis, la Suprema Corte precisa che la pronuncia dell’organo pubblico fa stato nei confronti del datore di lavoro, il quale, preso atto dell’incapacità lavorativa, non può fare altro se non procedere al licenziamento. Successivamente, viene stabilito il modus operandi che deve essere seguito dal datore, il quale non deve limitarsi al giudizio privato del medico responsabile, bensì ai sensi dell’art. 5, L. n. 300/1970, deve rivolgersi alla commissione medica della ASL per la conferma dell’inidoneità; diversamente, andrebbe ad assumere su di sé l’intero rischio del licenziamento, avendo anche escluso la possibilità di impieghi alternativi. E veniamo quindi all’ultimo principio enucleato nella sentenza, secondo il quale sul datore grava l’obbligo di valutare il reimpiego del lavoratore, anche in posizioni di rango inferiore, ma compatibili con la menomata capacità lavorativa.
Osservazioni operative
Ciò che risulta d’interesse sono alcuni principi che la sentenza contiene, rispetto ad una fattispecie che spesso interessa le Aziende, tantoppiù oggi, atteso che il conseguimento della pensione di vecchiaia (che come noto attiene al raggiungimento di una certa età anagrafica) è stato spostato sensibilmente in avanti. Ciò comporta che, in particolare per le attività lavorative che richiedono il possesso di talune qualità fisiche, l’avanzata età sottragga al lavoratore, in tutto o in sensibile parte, la capacità di disimpegnare la prestazione.
Una prima, importante, osservazione attiene al come far accertare la sussistenza di una causa che limiti in modo sensibile l’esecuzione della citata prestazione. Ebbene, la Corte sottolinea come le decisioni assunte da un organo pubblico fanno stato nei confronti del datore di lavoro che, conseguentemente, non può certo ignorarle, con il rischio di aggravamento della salute del prestatore. Dunque, viene ritenuto che il responso dell’organo pubblico vincoli il datore di lavoro, per cui laddove detto responso sia nel senso della insussistenza della capacità lavorativa, ovvero della specifica capacità necessaria per rendere una determinata prestazione, allora il datore di lavoro non può che prenderne atto e procedere al licenziamento.
Viene in risalto il modus procedendi che il datore di lavoro deve necessariamente, e prudentemente, porre in essere, non fermandosi al giudizio del medico responsabile, che è un giudizio privato, ma procedendo a richiedere, ai sensi dell’art. 5 della L. n. 300/1970, alla commissione medica della ASL la conferma della accertata inidoneità. Agendo diversamente, per cui fermandosi al primo step, il datore di lavoro assume interamente su di sé l’intero rischio, costituito dall’aver proceduto ad intimare un licenziamento per motivi oggettivi in ragione del solo giudizio privato.
Diversamente, come detto, laddove il recesso consegua ad una valutazione pubblica, che garantisce di per sé efficacemente il prestatore, come anche il datore, in tal caso il medesimo datore di lavoro ha l’obbligo di recedere dal rapporto di lavoro, sempre che non vi siano possibilità occupazionali alternative.
Veniamo così al secondo aspetto di interesse che attiene al repechage. In sintesi, il datore di lavoro anche nel caso del recesso di cui si parla è obbligato a valutare se vi sono ulteriori posizioni lavorative, anche di rango inferiore, compatibili con la ridotta capacità lavorativa del prestatore, che possano essere allo stesso assegnabili. In tal senso si segnala che continua, ed anzi da ultimo la giurisprudenza inasprisce ed allarga smodatamente detto onere, rispetto al quale deve esser fatta molta, ma davvero molta, attenzione.
- Retribuzione variabile e clausole di c.d. Claw Back
Costituisce ormai da tempo una prassi, diffusa anche nelle aziende di non grandi dimensioni, quella di incentivare individualmente la prestazione fissando degli obiettivi di carattere economico al raggiungimento degli stessi.
Per solito il piano di incentivi attiene all’anno, sia esso civile ovvero fiscale a seconda dell’organizzazione interna dell’azienda, ma nel tempo ci si è accorti che talvolta il raggiungimento del quale si parla poteva essere legato a fenomeni accidentali, quali l’improvviso incremento della domanda, fattori favorevoli congiunturali e via dicendo. Ma, in particolare per quanto attiene al management, non è certo l’interesse al raggiungimento del singolo obiettivo relativo a un determinato anno a rappresentare l’interesse sostanziale aziendale, essendo invece la stabilizzazione di un certo trend afferente un lasso di tempo più lungo rispetto a quello annuale, a costituire il vero obiettivo imprenditoriale.
La domanda che da tale situazione sorge è: se si è pagato un certo importo in quanto è avvenuto il raggiungendo dell’obiettivo annuale, ma successivamente in un lasso di tempo superiore la situazione muta peggiorando, per cui gli ulteriori obiettivi non vengono centrati, le somme già versate restano accreditate al dipendente in via definitiva, ovvero, possono essere ripetute?
Ed ancora, se successivamente al pagamento si dovesse scoprire che il dipendente ha posto in essere condotte inadempienti o, peggio, fraudolente, anche se non direttamente collegabili al raggiungimento del o degli obiettivi, gli importi versati sono o meno intangibili?
La previsione di una clausola di c.d. Claw Back
Sul piano del diritto vi sono alcuni aspetti che vanno prioritariamente chiariti. Primo tra tutti che la retribuzione incentivante è “on top” rispetto a quella c.d. fissa trattandosi all’evidenza di emolumenti variabili e condizionati dal raggiungimento degli obiettivi. Tutto ciò ha l’effetto, fondamentale, di lasciare spazio alle parti che possono decidere, secondo i loro interessi, come strutturare l’incentivazione.
Ed è in questo spazio che possono trovare la loro legittima operatività quelle clausole come la c.d. Claw Back che – a determiniate condizioni- legittimano il datore di lavoro ad azionare veri e propri sistemi di correzione, distintamente previsti, per ripetere le somme in precedenza versate.
Va da sè che le pattuizioni non possono essere ritenute valide laddove, in buona sostanza, vi sia una facoltà illimitata di azionare la clausola della quale si parla. Bisognerà pertanto opportunamente circoscrivere la casistica rispetto a quelle ipotesi che siano nell’interesse dell’impresa.
Peraltro è da notare che si deve escludere che vi sia uno stretto collegamento tra operatività della clausola e contestazione disciplinare, nel senso che non è necessario, nel caso si siano avverate condotte inadempienti, averle contestare per richiedere la ripetizione delle somme erogate.
- Contratto collettivo aziendale di prossimità: limiti interni ed esterni e differenze con il contratto collettivo aziendale “ordinario” (Corte Cost., 28 marzo 2023 , n. 52)
In questa sentenza la Corte, pur non pronunciandosi nel merito per un vizio di forma, ha sottolineato le differenze tra i due tipi di contratti collettivi, ovvero quello previsto dall’art. 8 D.L. n. 138/2011 e quello aziendale ordinario. Al primo è stata riconosciuta efficacia erga omnes e potere derogatorio rispetto sia alla legge sia ai contratti collettivi nazionali, ovviamente nei limiti interni disposti dalla suddetta norma (materie e finalità indicate) ed in quelli esterni, costituiti dalla Costituzione in primis (infatti, nel caso di specie, la Corte di Appello di Napoli aveva lamentato la violazione degli artt. 2 e 39 Cost.), dalla normativa europea e dalle convenzioni internazionali. I contratti collettivi aziendali ordinari invece non hanno efficacia erga omnes, infatti non si estendono ai lavoratori e alle associazioni sindacali dissenzienti in fase di stipulazione.
Osservazioni operative
Se si potesse sintetizzare il contenuto della pronunzia in un breve commento potrebbe esser detto: un bel passo avanti e mezzo passo indietro, vediamo perché.
Il passo avanti sta nella affermazione della esistenza di un vincolo forte e sostanziale che il contratto di prossimità spiega perché vale per tutti i lavoratori, iscritti non iscritti alle organizzazioni firmatarie, consenzienti, dissidenti o recalcitranti che siano. Non è poco in un panorama disomogeneo ed insicuro, fatto spesso di frammentazioni individualistiche che sfiorano l’assurdo e, ancor più spesso, di schermaglie tra fazioni sindacali che gareggiano tra di loro. Cosicché oggi vi è dunque un motivo in più per rivolgere a questa tipologia di accordi un interesse maggiore. Come la sentenza avvertitamente riferisce bisogna che l’accordo resti nel solco di quanto la norma che disciplina gli accordi di prossimità (art. 8 del D.l n. 138/2011) prescrive, dunque attenzione a non debordare dal perimetro, invero vasto, che la norma traccia.
Il mezzo passo indietro risiede nel fatto che la pronunzia, pur esprimendo un corretto concetto legato ai limiti della rappresentatività sindacale, non si sofferma su di un aspetto che è quello della possibilità che l’accettazione dell’accordo aziendale possa avvenire anche per fatti concludenti. Questa non è una critica alla pronunzia che, come noto, si deve muovere all’interno di taluni limiti; seppure spesso la Corte ha fatto in modo che si aprissero opportuni spazi per indicare strade, ovvero rivolgere moniti al Legislatore. L’occasione era di quelle uniche, perché l’autorevolezza della Istituzione avrebbe potuto far sì che venisse acquisito un altro, rilevante, tassello rispetto alla necessità della stabilità degli accordi aziendali.