Noterelle operative aprile-maggio 2023

Novità introdotte dal governo lo scorso primo maggio nel cosiddetto “Decreto Lavoro” e due decisioni della Corte di Cassazione.

Noterelle operative aprile-maggio 2023

  1. Il nuovo “Decreto Lavoro” (D.L. n. 48/2023).

È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale di ieri, la n. 103 di giovedì 4 maggio 2023, il decreto legge 4 maggio 2023, n. 48 contenente “Misure urgenti per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro”, in vigore dal 5 maggio u.s. Il provvedimento che ha avuto il via libera dal Consiglio dei ministri il 1° maggio è composto da 45 articoli divisi in V Capi e un Allegato.

Fra i principali titoli del provvedimento dunque figurano: misure volte a ridurre il cuneo fiscale, per la parte contributiva, nei confronti dei lavoratori dipendenti con redditi fino a 35.000 euro lordi annui; il contrasto alla povertà ed all’esclusione sociale, con focus sulle famiglie con soggetti fragili, minori o anziani; la promozione delle politiche attive del lavoro, con l’obiettivo di assicurare la formazione a chi è in grado di svolgere un’attività lavorativa; previsti interventi sulla sicurezza sul lavoro e tutela contro gli infortuni oltre alla modifica la disciplina del contratto a termine.

In particolare, per quanto riguarda i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, l’art. 24 del Decreto in parola (“Disciplina del contratto di lavoro a termine”) ha finalmente allentato la stretta del Decreto Dignità del 2018, introducendo nuove causali che possono essere indicate nei contratti di durata compresa tra i 12 e i 24 mesi (comprese le proroghe e i rinnovi), al fine di consentire un uso più flessibile di tale tipologia contrattuale, mantenendo comunque fermo il rispetto della direttiva europea sulla prevenzione degli abusi. Pertanto, i contratti potranno avere durata superiore ai 12 mesi, ma non eccedente i 24 mesi: nei casi previsti dai contratti collettivi (nazionali, territoriali o aziendali); per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva, individuate dalle parti (è stato dunque dato spazio anche alla contrattazione individuale), in caso di mancato esercizio da parte dell’autonomia collettiva, ed in ogni caso entro il termine del 30 aprile 2024; per sostituire altri lavoratori.

È prevedibile ed auspicabile, che la materia sarà disciplinata soprattutto dalla contrattazione collettiva aziendale, essendo la stessa più vicina alle esigenze da tenere in considerazione.

Inoltre, il nuovo intervento normativo “smonta” anche il Decreto Trasparenza, in vigore dallo scorso agosto, che, spesso, andava oltre la direttiva Ue e scaricava sulle imprese una mole di adempimenti inutilmente gravosi. Nel Decreto Lavoro, all’art. 26, entrano una serie di semplificazioni (e chiarimenti). In particolare, in relazione a tutta una serie di informazioni da includere nel contratto individuale di lavoro come, ad esempio, sulla durata del periodo di prova, sul congedo per ferie, sull’importo iniziale della retribuzione, sulla programmazione dell’orario normale di lavoro, è disposto che l’obbligo informativo datoriale è assolto con la sola indicazione del riferimento normativo o della contrattazione, anche aziendale, che disciplina queste materie. Inoltre, sempre per sgravare i datori, si stabilisce che l’azienda è tenuta a consegnare o a mettere a disposizione del personale, anche sui siti web, contratti collettivi e regolamenti aziendali applicabili al rapporto di lavoro.

Il Decreto in parola è intervenuto anche sui controlli sui lavoratori “automatizzati”. La nuova norma chiarisce che il datore è tenuto a informare il lavoratore dell’utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio solo con riguardo a quelli «integralmente» automatizzati, deputati a fornire indicazioni rilevanti ai fini della assunzione o del conferimento dell’incarico, della gestione o della cessazione del rapporto di lavoro, dell’assegnazione di compiti o mansioni nonché indicazioni incidenti su sorveglianza, valutazione, prestazioni e adempimento delle obbligazioni contrattuali dei lavoratori.

  1. Sentenza Cass. n. 8375/2023 (indennità sostitutiva del preavviso).

Vi sono, a volte, sentenze che permettono di mettere le cose a loro posto anche in diritto. Questa pronunzia appartiene a quella categoria in quanto, per chi avrà la possibilità di leggerne  la motivazione, ristabilisce, norme e giurisprudenza alla mano ciò che è, vale a dire un corretto ordine.

Vediamo di cosa si tratta e poniamo anche dei distinguo.

L’indennità sostitutiva del preavviso, come noto, sostituisce appunto il lasso di tempo non prestato col lavoro, successivo al recesso ovvero alle dimissioni, con una somma che viene posta a carico di chi non ha dato il preavviso.

La Corte si è posta il quesito: ma questa dazione  economica  attiene alla prestazione o ad un obbligo? La risposta è ad un obbligo e ciò sulla base di quella, corretta, giurisprudenza che ha scardinato l’idea che il preavviso corrispondesse ad una obbligazione c.d reale, cioè in rem e quindi effettiva. Dunque, una volta che il recesso ovvero le dimissioni prive del periodo di preavviso sussistono, allora il rapporto si risolve.

Il secondo passaggio, sia logico che giuridico, è stato una conseguenza di quanto precede; allora, se si tratta di una obbligazione, la stessa dove si colloca? All’interno ovvero al di fuori  del rapporto di lavoro? Anche qui la risposta è condivisibile: si colloca al di fuori. Ciò è, in altre parole, una conseguenza come tale succedanea, perché il rapporto si è estinto.

Da cui, terzo passaggio, ciò che l’art. 2120 c.c. dispone in materia di computo del Trattamento di Fine Rapporto riguarda anche l’indennità sostitutiva del preavviso? La risposta è stata negativa, e la ragione attiene all’esame di ciò che la norma citata prescrive. La stessa afferisce a quanto attiene al rapporto di lavoro, per cui, per dirla in altre parole, non riguarda quanto è al di fuori di quel perimetro; ergo l’indennità sostitutiva è al di là della cessazione e dunque non si computa.

Ciò detto, il ragionamento va completato, perché possono esistere fonti diverse dalle legge, che a questa si affiancano creando obblighi ulteriori. E’ questo il caso di quelle previsioni che taluni CCNL contengono, le quali prescrivono con chiarezza che anche l’indennità di mancato preavviso vada considerata ai fini del computo del TFR.

  1. Ordinanza 26197/2022 (mancata ottemperanza, da parte del dipendente, di un ordine impartito dal datore di lavoro).

Il tema è quello della mancata ottemperanza da parte del prestatore di lavoro rispetto ad un ordine impartito dal datore di lavoro ovvero dai suoi collaboratori. In questo caso il rifiuto di eseguirlo costituisce sempre inadempimento? La casistica è molto vasta, si va dal rifiuto di eseguire una certa prestazione al mancato trasferimento, alla violazione delle mansioni, per cui alla assegnazione di compiti deteriori.

Il distinguo che queste come altre pronunzie compiono si basa su due elementi: il primo attiene alla legittimità della disposizione datoriale, il secondo afferisce al principio della correttezza e della buona fede.

Ora, senza dilungarsi in dissertazioni teoriche (queste pagine non hanno questo scopo), proviamo a dare una indicazione concreta. Cosa è che può essere rifiutato dal prestatore e a cosa non può sottrarsi? Questo distinguo lo si fa pensando che, prima di giungere in Cassazione, il giudizio viene affrontato nelle aule del giudice di merito, dove è appunto il merito della questione che viene esaminata.

Ed allora, partiamo proprio dall’obbligo di collaborazione, dovuto dal prestatore. Questi non può rifiutare la prestazione sol perché, sulla base di un giudizio personale, non la ritiene confacente. Deve esserci qualcosa in più, deve trattarsi di ciò che palesemente viola le regole del contratto. Se non è così – pensiamo ad un trasferimento la cui motivazione è complessa, basata su dati oggettivi e che può presentare un aspetto problematico limitatamente ai contenuti delle nuove mansioni afferenti alla diversa sede di lavoro – allora il rifiuto si palesa come inadempimento, per la ragione, oggettiva, che ex ante il lavoratore non era in grado di stabilire se il disimpegno delle nuove mansione violava la sua professionalità. Per cui, in casi come questi, la condotta, consistita nel rifiuto aprioristico, è suscettibile di essere valutata in sede disciplinare.