Noterelle Operative

Gennaio 2023

Noterelle Operative – Gennaio 2023

  1. Nel patto di non concorrenza è ammissibile ancorare il corrispettivo alla durata della prestazione (Cass. sent. n. 33424/2022)

La sentenza:

La Corte di Cassazione si è pronunciata sulla validità di un patto di non concorrenza di un rapporto di lavoro subordinato, per cui ex art. 2125 cod. civ. , all’interno del quale era stata inserita una clausola afferente il corrispettivo del patto medesimo che prevedeva, in caso di cessazione anticipata del rapporto di lavoro prima della scadenza del triennio, la corresponsione al lavoratore di un importo collegato alla durata del rapporto stesso. La Cassazione, al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza in riferimento al corrispettivo dovuto, ha ritenuto, innanzitutto, che in quanto elemento distinto dalla retribuzione, il corrispettivo debba possedere i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’articolo 1346 cod. civ. Per cui, qualora il medesimo risulti determinato o determinabile, allora, al fine di stabilire la legittimità del compenso, sarà necessario verificare, che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore. Pertanto, per poter giungere ad una declaratoria di nullità del patto, non è sufficiente fermarsi alla considerazione che il compenso non sia determinabile al momento della sottoscrizione dell’accordo, ma sarà necessaria una rigorosa valutazione in concreto relativamente al carattere giammai potrà essere meramente simbolico o iniquo.

Osservazioni operative:

Una delle questioni maggiormente dibattute relativamente al patto di non concorrenza proprio del rapporto di lavoro subordinato, ha riguardato, da sempre, la determinazione del compenso.

Molto spesso ci si è imbattuti in pronunce di merito che, laddove il compenso era stato regolato attraverso la corresponsione di una certa somma da pagare con cadenza mensile, avevano ritenuto che non essendo il compenso medesimo determinabile ab initio – con la conseguenza che non si riusciva materialmente a stabilire la sua congruità- allora il patto in questione doveva ritenersi nullo, in quanto viziato in uno dei suoi aspetti fondamentali.

La Corte di legittimità con la sentenza sopra indicata pone un freno rispetto alle pronunce testé ricordate, nel senso che indica ai giudici di gradi di merito qual è il criterio il ragionamento che va attuato, non in astratto ma in concreto. Valutando dunque alla durata del se la pattuizione, in fin dei conti, sortisce un effetto equilibrato quarto al compenso da erogare al dipendente in relazione al patto di non concorrenza.

Ciò detto, ed affrontando come al solito gli aspetti di carattere operativo, lo spunto che può cogliersi dalla sentenza in questione sta nella opportunità di stabilire all’interno del patto in commento criteri utili, che colleghino la durata del rapporto con il compenso nonché con la durata del rapporto di lavoro. Di modo che all’interno possa esservi un effettivo equilibrio tra tutti i fattori nonché con l’interesse delle parti, in quanto più il rapporto di lavoro dura, più la previsione relativa alla durata del patto si allunga.

Prendendo spunto da quanto avviene nel campo del mandato di agenzia, si evidenzia che in taluni degli accordi collettivi che regolano per distinti settori l’attività di mediazione (c.d. AEC) è previsto un collegamento percentuale tra le provvigioni incassate dall’agente e il compenso acquisti dovuto relativamente al patto di non concorrenza.

A ben vedere in quell’ambito le parti contraenti collettive hanno già fatto un ragionamento concreto del tutto simile rispetto a quello che nella sentenza si legge, vale a dire che più rilevanti sono le provvigioni, per cui più rilevante è stata l’opera del mediatore, più nuocerebbe alla parte proponente la concorrenza del suo ex agente, perché tanto non avvenga la limitazione va debitamente pagata.

Esistono anche ulteriori criteri di quantificazione del quantum del patto che mettono al sicuro lo stesso, determinando un corrispettivo congruo ponendo alla base una percentuale della retribuzione ed una durata del patto congrua con lo stesso e con l’anzianità maturata.

 

  1. Legittimità dell’utilizzo della posta elettronica aziendale per l’invio di comunicazioni sindacali (Cass. sent. nn. 35643/2022, 35644/2022)

Le sentenze:

Con le sentenze in questione, la Cassazione ha ritenuto lecito l’utilizzo della posta elettronica aziendale per inviare comunicazioni di natura sindacale, utilizzando la propria e-mail personale ed inviando ai lavoratori sulla loro e-mail aziendale una serie di comunicazioni, ciò durante l’orario di lavoro dei destinatari.

La questione è sorta, in modo particolare, con riferimento a delle realtà aziendali contrassegnate da turni di lavoro strutturati su un arco temporale di 24 ore, in cui non può configurarsi un tempo comune di pausa. La Cassazione ha affrontato il tema del “volantinaggio elettronico” dando un’interpretazione evolutiva dell’art. 26 dello St. lav., secondo cui i lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi di lavoro, con il solo limite dell’assenza di pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale. Infatti, l’evolversi delle modalità di comunicazione telematica, consentendo di raggiungere in modo più immediato i singoli lavoratori, ciò che garantisce una reale efficacia dell’attività sindacale.

Inoltre, la previsione di una specifica casella di posta elettronica, dedicata alle sole comunicazioni sindacali, messa a disposizione dal datore di lavoro, darebbe concreta attuazione all’obbligo datoriale di predisporre appositi spazi per l’attività sindacale – come richiesto dall’art. 25 St. lav. – e potrebbe essere utile per evitare l’eccessivo affollamento della casella di posta aziendale.

Osservazioni operative:

L’informatica, e non poteva non accadere, permea con la sua duttilità anche il campo dei rapporti sindacali. L’estensione, davvero inimmaginabile solo pochi anni fa, e la diffusione dei cellulari ha fatto si che la posta elettronica, i messaggi, anche se numerosissimi,  viaggino e si diffondano con un solo click.

Pertanto la pronunzia non poteva non tener conto, anche, di ciò oltre che delle condizioni oggettive nelle quali i fatti oggetto di causa si sono verificati.

Qualche osservazione contraria può esser spesa, ma non sappiamo se il dato sia emerso nel corso dei gradi di merito del giudizio, relativamente al fatto che l’attività lavorativa, di chi riceve il messaggio, non può essere interrotta a causa dello stesso per il tempo necessario alla sua lettura.

Tanto evidenziato, c’è da chiedersi: cosa sarebbe avvenuto laddove – a seguito di una precisa disposizione aziendale- l’indirizzo di posta elettronico lavorativo fosse stato riservato alle comunicazioni appunto di lavoro? Sarebbe stato sanzionabile il comportamento del sindacalista che, in definitiva, utilizza uno strumento azienda per tutt’altre finalità ? La risposta potrebbe essere positiva, ma, come detto vi sarebbe stato bisogno di un regolamento a monte.

E qui sorge lo spunto per evidenziare come l’aspetto della regolamentazione dei mezzi informatici in genere presenti presso tutte le Aziende, costituisce un aspetto molto trascurato ed a volte è inesistente, nonostante che il datore di lavoro abbia consegnato ad una moltitudine di dipendenti sia cellulari che PC ovvero Tablet e via dicendo.

L’uso non regolamentato dei mezzi informatici, fa si che si creino, in talune situazioni, svariati problemi anche con riferimento alla sicurezza dei dati aziendali, che divengono potenzialmente permeabili, come pure dicasi sotto il profilo della sicurezza atteso che, come noto, oggi viaggiando sul Web possono importarsi virus molto aggressivi.

Lo stesso dicasi per i profili disciplinari, per i quali l’uso personale del bene, privo di regolamentazione, diviene un ostacolo, a volte insormontabile, per l’accertamento del contenuto del cellulare o di quanto altro. Ciò che, di contro, non avviene laddove esista un regolamento aziendale che oltre a limitare, ovvero a non consentire l’uso personale, stabilisce anche la possibilità che in talune circostanze lo stesso possa essere oggetto di adeguati e penetranti controlli.

 

  1. La delicata questione relativa alla perdita della capacità lavorativa, ed al perimetro del repechage (Cass. 23.1.2021, n. 4896)

La sentenza:

La Corte di Cassazione, nella pronuncia in questione, ha ritenuto legittimo il licenziamento per sopravvenuta inidoneità del lavoratore allorquando, nell’ambito della struttura organizzativa assunta dall’impresa, non sussistano mansioni che possano eventualmente adattarsi all’inabilità del lavoratore. La Corte ha precisato che l’indagine circa la sussistenza o meno di mansioni assegnabili al lavoratore divenuto inidoneo, deve essere effettuata tenendo conto non solo della protezione del soggetto svantaggiato, ma anche dell’interesse del datore di lavoro ad una collocazione del lavoratore inabile nella realtà organizzativa unilateralmente delineata dall’imprenditore stesso nonché del diritto degli altri lavoratori allo svolgimento di mansioni rispondenti al loro bagaglio professionale. Infatti, l’obbligo del datore di verificare la possibilità di assegnare al lavoratore inidoneo altre mansioni equivalenti o inferiori compatibili con le sue condizioni di salute trova un limite invalicabile nell’inviolabilità in peius ex art. 2103 c.c. delle posizioni lavorative degli altri prestatori di lavoro; deve, pertanto, escludersi che le misure organizzative possano incidere negativamente sulle mansioni e sulle condizioni di lavoro degli altri lavoratori.

Osservazioni operative:

Si tratta di una questione ricorrente, dovuta, anche, all’invecchiamento della popolazione e quindi, necessariamente, della forza lavoro, nonché dell’innalzamento dei c.d. tetti pensionistici che hanno avuto l’effetto di allungare la vita lavorativa con ogni relativa, non positiva, ricaduta.

Il tema è quantomai delicato, trattandosi di una materia nella quale, come la Corte di Cassazione ha nella sentenza citata evidenziato, intervengono svariate norme talune provenienti dal Legislatore nazionale e molte altre dagli accordi internazionali (come la Convenzione di New York) nonché dalle pronunce della Corte di Giustizia conformemente all’art. 2 comma 4, della Convenzione dell’ONU.

Proprio il complesso delle fonti sopra citate fa sì che, per quanto attiene all’obbligo del repechage si debbano coniugare da un lato le esigenze organizzative del datore di lavoro, e dall’altra il diritto del prestatore di continuare a lavorare, eventualmente con una modalità diversa rispetto a quella propria delle mansioni il cui disimpegno è divenuto incompatibile.

La domanda alla quale, necessariamente, si deve dare una risposta concreta riguarda il perimetro effettivo entro il quale si colloca l’obbligo, tutto del datore di lavoro anche per quanto attiene all’onere della prova, di conservazione del contratto di lavoro del prestatore divenuto inidoneo, fornendo la dimostrazione di aver ricercato effettivamente nell’ambito di tutta la propria organizzazione imprenditoriale, considerando anche la possibilità dello smart-working laddove utilizzabile, una posizione di lavoro confacente rispetto alle modificate condizioni psicofisiche del collaboratore.

Si badi che la dimostrazione di una tale attività, ed il suo risultato, costituiscono un aspetto fondamentale affinché l’eventuale recesso comunicato a seguito della perdita della capacità lavorativa specifica, per cui per motivi oggettivi disciplinati dall’art. 3 della legge n. 604/1966, possa essere ritenuto legittimo. Con la conseguenza che laddove tale prova non venga fornita il recesso sarà ritenuto illegittimo e, secondo la preponderante giurisprudenza, il lavoratore dovrà essere reintegrato.

La sopravvenuta infermità del prestatore riguarda, in primo luogo, le mansioni che ordinariamente questi era tenuto a disimpegnare. Laddove, a seguito di una prescrizione del medico responsabile, il prestatore sia stato ritenuto inidoneo, allora si pone la questione del quale si tratta. Sicché, dovrà essere considerato il principio secondo il quale l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore non è discutibile, limite questo che non se non consente di richiedere la creazione di una postazione lavorativa ad hoc, non esclude affatto l’obbligo di ricercare una possibilità di adibizione del lavoratore ad altre attività sia equivalenti, vuoi di contenuto inferiore rispetto a quella in precedenza disimpegnate, sempre che la stessa risulti effettivamente utile per l’impresa nonché rispettosa del diritto di altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate.

In altri termini, la ricerca delle alternative in parola non deve ad ogni costo dare un risultato positivo, ma laddove il reperimento di una posizione lavorativa idonea non avvenga, il datore di lavoro deve dimostrare in primo luogo la avvenuta ricerca di tale posizione, secondo i principi generali della correttezza e della buona fede, e dunque la sua insussistenza.

La prova dell’insussistenza citata potrà essere corroborata da elementi positivi, quali la mancanza di assunzione in un lasso di tempo prossimo rispetto al licenziamento del lavoratore inabile, con riguardo alle posizioni lavorative allo stesso eventualmente potenzialmente affidabili. Si aggiungano i dati afferenti il contenimento del costo del lavoro, la sussistenza di una situazione oggettiva tale da ridurre le possibilità di reimpiego per completare il quadro. Naturalmente, quelli ora indicati sono esclusivamente degli spunti perché ogni realtà, secondo le proprie caratteristiche, possiede aspetti peculiari utili a rendere la prova della quale si è detto.