La Corte Costituzionale e la lettura, pressoché unica, “al rialzo” delle norme relative ai licenziamenti
La recente pronuncia della Corte Costituzionale n.° 183/2022 offre lo spunto per una riflessione che poggia le basi sulla valutazione pluriennale dei contenuti delle pronunzie che nel tempo il Giudice delle leggi ha depositato nella materia del licenziamento con riferimento ai rapporti di lavoro privati (a titolo di esempio: sentenza n. 150/2020 e n. 194/2018). Il ragionamento tiene conto, ovviamente, del nostro sistema di impugnazione della norma di legge e dei provvedimenti che hanno pari forza, per cui la pronunzia della Consulta è solo incidentale (art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1). In tal senso si può utilmente affermare che la “lettura” che il Giudice delle leggi compie è necessariamente e strettamente connessa alle censure e ai motivi di incostituzionalità che al suo vaglio vengono portati da altri giudici.
Ciò, tuttavia, non esaurisce il quadro in quanto si deve anche tenere conto di come la lettura di innumerevoli pronunzie della Consulta confermi in svariati casi – persino di rigetto delle censure vuoi perché inammissibili ovvero in quanto infondate – di come la Corte abbia colto opportunamente l’occasione per puntualizzare, per indicare e, in fin dei conti, per inviare al legislatore chiare e talvolta esplicite indicazioni, finalizzate a sollecitare un suo necessario e non differibile intervento (proprio da ultimo, la sentenza n. 183/2022 sopra richiamata). Un’attività quest’ultima che pone in rilievo un aspetto essenziale, vale a dire che le norme dettate in materia di licenziamento poste al vaglio del Giudice delle leggi – sia che si tratti della legge c.d. Fornero, vuoi che riguardi il Jobs Act – sono sempre risultate inadeguate per difetto. Il che, sia ben chiaro, non vuol dire che quelle pronunzie non sono corrette e, come da ultimo avvenuto con la recente sentenza in parola, anche opportune.
Viene, però, costantemente dimenticato, con riferimento alla medesima materia afferente il licenziamento, l’insegnamento impartito dal padre dello Statuto dei Lavoratori Prof. On. Gino Giugni, a conferma di un’idea già espressa dal Prof. Ubaldo Prosperetti, cui ha fatto seguito, più recentemente, il contenuto dei contributi resi dal Prof. Antonio Vallebona. Si tratta di orientamenti tesi ad affermare che l’articolo 18, della legge 300/70 (meglio conosciuta come “Lo Statuto dei lavoratori”) postula, ieri come oggi, quale necessaria condizione per il suo mantenimento, di un’economia costantemente in crescita.
Solo in una tale condizione, la sanzione conseguente alla sentenziata illegittimità del recesso – costituita dalla reintegrazione unitamente al pagamento delle mensilità perdute (con l’aggiunta dell’onere del versamento dei contributi previdenziali) può ritenersi in equilibrio rispetto all’economia reale del Paese che, solo se non in sofferenza, ne consente l’assorbimento.
Appare superfluo, sul punto, spendere molte parole ovvero indicare dati, per dimostrare che, oggi, la situazione economica del paese è tutt’altro che in crescita. Conseguentemente, visto il trend in aumento delle condizioni della nostra economia reale e il suo continuo aggravamento, è auspicabile che le autorevoli sollecitazioni della Consulta si soffermino a esaminare anche la parte della norma afferente la reintegrazione, adeguandola, seppure non al rialzo, all’esistente, per consentirne l’equilibrio nel senso sopra descritto, anche se non è da sottacere la complessità dell’intervento riformatore.
A cura dell’Avv. Paolo de Berardinis