Non sempre le dimissioni del prestatore di lavoro costituiscono un diritto potestativo assoluto
Il codice civile ha regolato con l’art. 2118 c.c. le dimissioni “ordinarie” dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, con l’unico obbligo a carico del recedente del preavviso. Si tratta di dimissioni diverse rispetto a quelle in tronco di cui all’art. 2119 c.c..
L’art. 2118 c.c. non richiede, a fini di legittimità delle dimissioni, la sussistenza di alcuna particolare situazione. Ciò significa che le dimissioni per loro natura sono libere, dipendendo esclusivamente dalla volontà del prestatore.
Ma tale libertà è, o meno, comprimibile? In altre parole possono qualificarsi come valide le pattuizioni che limitino l’esercizio di un simile diritto?
La domanda che ci si deve porre è se un simile diritto sia disponibile o meno, e se lo è, entro quali limiti il prestatore può validamente disporne?
Alla prima domanda va data risposta affermativa, in quanto è fuor di dubbio che il prestatore possa liberamente far cessare il suo rapporto di lavoro. Ed è questo il motivo per il quale è valida anche la risoluzione in via consensuale del contratto di lavoro, che si pone al di fuori di quanto è previsto per le rinunzie proprie dei diritti indisponibili dall’art. 2113 c.c..
Se dunque ci troviamo difronte ad una facoltà, per così dire, disponibile, allora la stessa potrà essere variamente regolata, in armonia con gli interessi che il datore di lavoro ed il lavoratore perseguono.
Questa è la ragione per la quale i c.d. patti di durata minima, anche se unilaterali, sono a loro volta validi obbligando, a seconda dei casi, entrambe le parti, ovvero una sola di esse, a non recedere sino al compimento del termine di durata come pattuito. In virtù di tali patti le parti prevedono che nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato -che tale rimane, senza modificarsi in un rapporto di lavoro a temine- il loro contratto non possa durare meno di un certo tempo.
A ben vedere quanto è stato sin qui riferito, può divenire oggetto di particolari, e talvolta anche sofisticate, pattuizioni in grado di rispondere a concreti e diversificati interessi.
Pensiamo al caso della assunzione di un giovane al quale l’azienda fa compiere a proprie spese un periodo di formazione specifica, contando in questo modo di poter ricevere, successivamente alla effettuazione del training, un ritorno da tale investimento. Ebbene in questo caso ben potrà il datore di lavoro vincolare il lavoratore a mezzo di uno specifico patto, cosicché questi non possa recedere prima di un certo momento. Tanto assicurerà al datore di lavoro quel ritorno economico che si aspetta e per il quale ha affrontato un certo costo.
Andiamo oltre, pensiamo -ad esempio- al caso del tecnico la cui assunzione si rende necessaria per completare un determinato progetto. Anche in questo caso il patto di stabilità potrebbe essere validamente sottoscritto.
Gli esempi, come è evidente, possono essere molteplici e per ciascuno potrà essere predisposto un apposito patto. L’importante è che in un tale ambito sussista un effettivo interesse delle parti a far sì che il loro rapporto abbia, come minimo, una certa durata. In altre parole, il patto deve essere funzionale al perseguimento di un interesse lecito, e se questo esiste allora il patto è valido.
Ma una simile obbligazione potrà anche riguardare il rapporto di lavoro in corso? Ovvero il patto di durata minima garantita può essere disposto solo al momento della nascita del rapporto di lavoro?
Anche sotto questo profilo rileva la disponibilità del diritto che se tale è, tale rimane, anche laddove non si tratti di assunzione ma di un rapporto di lavoro già in essere. È infatti ben possibile che nel corso del rapporto di lavoro si manifestino particolari esigenze, legate a specifici progetti, azioni, ovvero obiettivi cui l’impresa punta per i quali va assicurata la presenza del dipendente come elemento funzionale al perseguimento delle finalità alle quali si è fatto ora cenno. In questi casi si potrà pattuire che la durata del contratto duri sino a quando le parti stabiliranno.
Bisogna però porre attenzione al fatto che la pattuizione debba conservare al suo interno un effettivo equilibrio, vale a dire che alla rinunzia, momentanea, di una facoltà da parte del prestatore di lavoro corrisponda un vantaggio per lo stesso, non differentemente da come avviene per l’impresa che si avvantaggia della stabilità relativa, oggetto dell’accordo. Ebbene, questo vantaggio potrà consistere in svariate utilità per il lavoratore. Così potrà prevedersi il pagamento di una somma, o l’attribuzione di un inquadramento superiore, ovvero la frequentazione di un corso di addestramento che incrementi la sua professionalità, o che gli consenta di acquisire un certo titolo.
La giurisprudenza ha esaminato anche il caso nel quale all’osservanza del patto di stabilità relativa è stata collegata una penale, naturalmente posta a carico della parte eventualmente inadempiente.
Non è questo il luogo ove affrontare i profili relativi alla clausola penale ed alle sue caratteristiche (artt. 1382-1384), va però detto che il suo inserimento è legittimo e si giustifica anche nell’ambito della prestazione che attiene alla durata minima del rapporto di lavoro. Per cui, laddove una delle due parti si rendesse inadempiente rispetto al patto, per cui recedesse prima del termine convenuto, ebbene sarebbe tenuta alla prestazione prevista in forma di penale, generalmente consistente nel pagamento di una somma di denaro.
Il lavoratore non è obbligato ad accettare l’accordo di cui si parla, per cui la sua pattuizione risulterà più agevole se negoziata all’atto della assunzione, atteso che l’azienda in quel momento ha maggiore forza contrattuale, ma anche in tale specifico frangente non si può parlare di obbligo. Sarà dunque la negoziazione delle parti a determinare l’inserimento del patto nell’ambito del rapporto di lavoro.