L’approfondimento: Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la soppressione del posto di lavoro e l’obbligo di repêchage, sempre più difficile, ma non impossibile!
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è disciplinato dall’articolo 3 della legge 604/1966. Si tratta del recesso datoriale determinato “da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.” Il licenziamento di cui si parla è frutto di una scelta dell’imprenditore volta a riorganizzare l’impresa, ovvero a limitare gli effetti di eventi sfavorevoli, ed ancora dovuta al fatto che la prestazione è divenuta antieconomica. In ragione di quanto afferma l’art. 41 della nostra Costituzione il Legislatore ha voluto mantenere il licenziamento nell’ambito della necessaria giustificazione (che veniva appunto sancita dalla legge del 1966), senza intaccare la libertà del datore di lavoro di riorganizzare l’impresa salvaguardando la sua competitività. L’articolo 3 l. n. 604/1966 è solo un precetto generico, oggetto di un’importante operazione di interpretazione da parte della giurisprudenza, volta a segnare i limiti di questa disposizione, giungendo alla affermazione secondo cui il licenziamento è un’extrema ratio. Il giudice, nel valutare la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non può sindacare le scelte economiche-organizzative dell’imprenditore . Dunque il sindacato giudiziale deve riguardare soltanto la verifica del nesso di causalità fra le (libere ma non illimitate) scelte del datore di lavoro e il licenziamento stesso. L’art. 3 cit. non è stato modificato dal Jobs Act, si può però affermare che il d. lgs. 23/2015, ha dotato di efficacia estintiva (anche qui non illimitata si badi) anche il licenziamento affetto da un difetto di giustificazione. Ciò conferisce alle scelte imprenditoriali una intangibilità sicuramente superiore rispetto al passato.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo può essere disposto in caso di soppressione della posizione di lavoro del dipendente. Nella prima di questa ipotesi, della quale qui ci interessa, il datore di lavoro per far valere la legittimità del licenziamento effettuato deve dimostrare l’effettiva soppressione del posto di lavoro. La soppressione del posto di lavoro non significa soppressione delle mansioni che il lavoratore stesso svolgeva, in quanto il datore di lavoro, nell’esercizio del suo libero potere organizzativo, può distribuire fra altri dipendenti, rimasti in forza, le mansioni prima appartenenti al lavoratore licenziato. In ogni caso la prova della soppressione del posto di lavoro non è sufficiente perché il recesso sia giudicato legittimo, essendo necessario che venga dimostrato che il lavoratore non poteva essere utilmente impiegato in mansioni diverse ( c.d. inutilizzabilità aliunde). Il datore di lavoro deve dunque dimostrare, anche, di aver cercato alternative possibili per impiegare il lavoratore al fine di evitare il suo licenziamento (che viene infatti configurato come extrema ratio). Ed è sul datore di lavoro che grava l’obbligo di repêchage e, di converso, la prova della sua impossibilità.
Veniamo ora al punto del repechage: la domanda da porsi nell’ambito del licenziamento in esame è se il repêchage sia, o meno, un elemento costitutivo del recesso, ovvero si tratta solo delle conseguenze della soppressione, dunque di un momento successivo. La differenza non è certo di poco momento, in quanto a seconda che si opti per l’una o per l’altra posizione, si avranno conseguenze del tutto diverse. Nel primo caso (elemento costitutivo) la sanzione per la mancata dimostrazione dell’ottemperamento dell’obbligo in questione, determinerà, laddove si applichi la legge Fornero, la reintegrazione, mentre nel secondo caso la tutela accordabile sarà solo indennitaria. Ed allora si comprende come mai questo aspetto sia diventato, in particolare di recente, oggetto di molta attenzione anche da parte della giurisprudenza che con alcune sentenze (Cass. nn. 5592/2016; 20436/2016; 4509/2016) ha tracciato sia il perimetro entro il quale deve essere ottemperato il predetto onere, vuoi determinato a chi tra le parti spetta l’onere della dimostrazione. In sintesi, si è affermato, mutando l’indirizzo per anni espresso dal giudice di legittimità, che l’intero onere grava sul datore di lavoro, che lo stesso deve avere ad oggetto tutta l’impresa, che non sono necessarie le allegazioni del prestatore relative alle posizioni di lavoro assegnabili in luogo di quella soppressa. Come detto: sempre più difficile, ma non impossibile. Infatti, a ben riflettere, se il datore di lavoro ha un onere così esteso, e se in particolare detto onere attiene all’intera struttura, allora dovranno essere valutate dal giudice tutte le circostanze nelle quali il recesso è avvenuto (ad esempio: esternalizzazione del servizio, varo di una nuova organizzazione, riduzione dell’attività specifica di un settore dell’impresa o generale, adozione di misure atte al contenimento dei costi etc.). Ed allora massima dovrà essere l’attenzione a valutare queste situazioni, a considerarne l’impatto sul recesso, nonché, la possibilità di una loro dimostrazione in giudizio.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: la soppressione del posto di lavoro e l’obbligo di repêchage, sempre più difficile, ma non impossibile!
Nella materia del giustificato motivo oggettivo, la questione relativa all’onere del repechage, da sempre, ha costituito un argomento dibattuto. Oggi, a seguito del mutamento di indirizzo espresso dalla Corte di Cassazione con le sue recenti sentenze, questo profilo diviene ancor più delicato. Con l’approfondimento si sono voluti richiamare taluni degli aspetti fondamentali propri del recesso per giustificato motivo oggettivo, per poi riflettere sul repechage, giungendo, si spera, a rendere un quadro che possa fornire alle aziende dei validi spunti operativi.