Riflessioni sul licenziamento per gmo

alla luce del decreto Cura Italia

Sull’effettivo ambito di applicazione della reintegra in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Come noto, l’art. 46 del d.l. n. 18/2020 (c.d. “Decreto Cura Italia”) ha disposto, a far data dal 17 marzo 2020 (data di entrata in vigore del decreto medesimo) e per i successivi 60 giorni, un vero e proprio divieto di comminare qualsiasi atto di recesso datoriale “dal contratto” di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604 … indipendentemente dal numero dei dipendenti”.

La “tregua temporale” imposta dal Legislatore potrebbe, tuttavia, offrire l’occasione giusta per tornare a meditare su quelli che devono essere i comprovati presupposti di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nonché sulle effettive conseguenze che potrebbero scaturire dalla mancanza di quei presupposti.

A tal proposito, premettiamo che un licenziamento per giustificato motivo oggettivo presuppone, per definizione e per legge (cfr. art. 3, l. n. 604/1966), la sussistenza di specifiche ragioni tecnico-organizzativo-produttive che hanno determinato l’esubero di una o più posizioni lavorative all’interno della società datrice di lavoro.

Posta questa premessa, se le menzionate ragioni difettano in modo evidente, allora la conseguenza non potrà che essere la reintegra in servizio del dipendente illegittimamente licenziato (cfr. art. 18, commi 4 e 7, legge n. 300/1970). Diversamente, ossia laddove non emerga una siffatta “evidenza”, si potrà accedere alle ipotesi sanzionatorie residuali che prevedono, in favore del lavoratore illegittimamente licenziato, un mero ristoro economico sotto forma di indennità risarcitoria (cfr. art. 18, commi 5 e 7, legge n. 300/1970).

Questi, in estrema sintesi, sono i criteri guida enunciati dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 7471/2020. Segnatamente, nel corpo della motivazione, i Giudici di legittimità sanciscono che “ai fini dell’applicazione della tutela reintegratoria prevista dall’art. 18, quarto comma I. cit., il giudice è tenuto ad accertare che vi sia una evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento”.

Laddove tale “evidenza” e “facilità” di cognizione non sia possibile – come potrebbe accadere nel caso in cui il datore di lavoro violi i “criteri di correttezza e buona fede nella scelta tra lavoratori adibiti allo svolgimento di mansioni omogenee” – allora avrà luogo esclusivamente la tutela indennitaria.

E lo stesso – id est, applicazione della tutela indennitaria – dicasi anche per l’ipotesi di esito negativo della “ulteriore valutazione discrezionale sulla non eccessiva onerosità del rimedio” al licenziamento (quest’ultimo, invero, deve sempre configurarsi come extrema ratio e tale non sarebbe se il datore di lavoro potesse utilmente reimpiegare il licenziando in altre posizioni/mansioni).

Insomma, in considerazione dei più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità, sembrerebbe che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soprattutto se espressione di un potere imprenditoriale di riorganizzazione ed efficientamento della propria attività economica (cfr. art. 41 Cost.), abbia – forse – trovato una sua degna legittimazione.

Chissà se di ciò terranno conto anche i Giudici del merito, quando la crisi pandemica che ha investito l’Italia sarà, finalmente, terminata e vi sarà bisogno di far ripartire le imprese sospese ex D.P.C.M. 22 marzo 2020 e Decreto del Ministero dello Sviluppo del 25 marzo 2020 “ad ogni costo” (incluso, purtroppo, anche quello del personale).