Difetto di diligenza minima e licenziamento per giusta causa
Con sentenza n. 28927/2019, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito ad un particolare caso di licenziamento per giusta causa.
In estrema sintesi, un datore di lavoro – un noto Istituto previdenziale – procedeva al licenziamento di un proprio dipendente per avere quest’ultimo “in concorso con altri … alterato i dati di alcune pratiche di ricongiunzione di periodi assicurativi o riscatti di periodi di laurea”.
Precisamente, il dipendente in questione avrebbe proceduto al calcolo degli oneri previsti per la ricongiunzione di più periodi contributivi maturati presso diverse gestioni previdenziali (cfr. legge n. 29/1979) e per il riscatto dei periodi di laurea (cfr. art. 7 della legge n. 274/1991) assumendo come “riferimento la data – sempre notevolmente antecedente a quella della lavorazione – apposta manualmente [n.d.r.: dal dipendente medesimo] sulla domanda senza protocollo o timbro di ricevimento” e, quindi, una data non “certa”.
Così operando, il dipendente avrebbe violato il principio secondo cui qualora sia presentata “una domanda [n.d.r. di riscatto o di ricongiunzione] con modalità diverse da quella della spedizione con raccomandata o presentazione a mano, la pratica doveva essere lavorata secondo i dati in possesso alla data della lavorazione stessa, e non ad un momento arbitrariamente individuato e antecedente”.
Instauratosi il giudizio, il lavoratore difendeva la propria condotta adducendo di non aver mai ricevuto istruzioni su come trattare “le domande presenti agli atti, ma prive di protocollo in arrivo, e non pervenute con lettera raccomandata”: da qui, in buona sostanza, il riferimento a date antecedenti, ancorché non certe, rispetto a quelle di effettiva lavorazione della pratica.
Sennonché, le tesi del lavoratore, dopo essere state accolte dal Tribunale competente, venivano respinte dalla Corte del merito e, infine, rigettate dalla Corte di Cassazione.
Ciò in quanto, secondo il Supremo Collegio, in “mancanza di dati certi” occorreva “fare riferimento alla data di lavorazione della domanda”: tanto era ricavabile dall’“onere di generale ordinaria diligenza” di cui era gravato il dipendente.
Fermo restando che, in una situazione come quella dianzi descritta, il lavoratore avrebbe quantomeno dovuto “confrontarsi con gli altri colleghi, e chiedere, formalmente agli interessati di produrre elementi che potessero giustificare ufficialmente la presentazione della pratica in un momento diverso, così tenendo un comportamento trasparente, senza generare incertezze in ordine al modus operandi per le irregolarità che erano poi state riscontrate”.
Le conclusioni cui è pervenuto il Supremo Collegio in ordine al delicato connubio che potrebbe sussistere tra “mancato uso dell’ordinaria diligenza” ed “intimazione di un licenziamento per giusta causa” non sono di poco conto, a cominciare dall’insussistenza dell’obbligo di pagare l’indennità di preavviso (caratteristica tipica, invece, dei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo).
Si aggiunga poi che, così sancendo, i Giudici di legittimità hanno ampliato ancor più le maglie della nozione di giusta causa, facendovi rientrare anche quelle condotte che – parimenti a quella in commento – non rispecchiano canoni “comuni” di diligenza.