Il regime sanzionatorio dei licenziamenti connessi al trasferimento d’azienda
La giurisprudenza di merito è tornata a pronunciarsi sul rapporto fra licenziamento e trasferimento d’azienda.
L’art. 2112, comma 4, c.c. stabilisce che il trasferimento non è di per di sé motivo di licenziamento, lasciando, allo stesso tempo, impregiudicata la facoltà di recesso del datore di lavoro nel rispetto della legge in materia di licenziamento.
Il Tribunale di Padova in una recente sentenza del 26 giugno 2019, la n. 4205/2019, si è pronunciato in riferimento al caso di una lavoratrice formalmente licenziata per cessazione dell’attività. A dispetto di ciò, il giudice di merito accertava che l’attività di commercio nel dettaglio di prodotti ittici in cui era impiegata la prestatrice di lavoro, era stata, in realtà, trasferita ad altro soggetto.
In particolare, il Giudice accertava che la suddetta attività veniva proseguita presso la medesima sede in cui era impiegata la lavoratrice ricorrente; che le attrezzature di lavoro erano state trasferite e non acquistate dal nuovo titolare; che inoltre, parte del personale dopo il licenziamento era stato poi riassunto dal cessionario.
Sono stati, invece, ritenuti irrilevanti altri elementi come la circostanza che il nuovo titolare cessionario svolgesse anche vendita all’ingrosso; che il cessionario medesimo avesse dato inizio anche ad ulteriori attività; che lo stesso cessionario avesse sottoscritto un nuovo contratto di locazione con il proprietario dell’immobile.
Tali elementi, infatti, non inficiano l’identità del complesso dei beni traferiti e la sua funzionalità al core business dell’attività, rappresentato dal commercio ittico.
Accertato, quindi, che non vi era stata cessazione dell’attività ma solo il suo trasferimento, il Giudice di merito, ha ritenuto, in tale ipotesi, che il licenziamento fosse nullo e non già privo di giustificato motivo. Ha affermato, infatti, che il trasferimento è risultato essere la “ragione effettiva e reale” del licenziamento e pertanto “il licenziamento è stato intimato per motivo non previsto dalla legge quale motivo legittimo di licenziamento”.
Al contrario di quanto asserito dalla pronuncia di merito in oggetto, l’orientamento prevalente della Corte di Cassazione, confermato anche nella recente sentenza n. 3186/2019, è nel senso che in casi analoghi a quello di specie, il licenziamento illegittimo non dia luogo alla tutela accordata dall’art. 18, comma 1, l. n. 300/1970 (c.d. reintegra piena), bensì a quella accordata dal successivo comma 4 (c.d. reintegra attenuata).
Nella predetta sentenza, i giudici di legittimità, si sono pronunciati sulla statuizione con cui la Corte di Appello di Roma dichiarava nullo un licenziamento coevo ad un’operazione di cessione d’azienda ritenendo che “il trasferimento di azienda non può impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ma, a ragione del suo stesso fondamento, questa oggettività può tuttavia avere giustificazione solo nello spazio della struttura aziendale, autonomamente considerata, non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo.”
Dal proprio canto, la Suprema Corte, riformando la pronunzia di seconde cure, ha ritenuto che il licenziamento fosse soltanto annullabile (e non già nullo) giacché esso andava sussunto nell’ipotesi della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ex art. 10, comma 7, l. n. 300/1970).
Da quanto sopra emerge che, nell’ipotesi di un licenziamento comminato in concomitanza con un trasferimento d’azienda e poi giudicato illegittimo, vi è un’incertezza in merito alla sanzione a cui il datore di lavoro va incontro.