Conseguenze di un licenziamento illegittimo:

limiti alla risarcibilità del danno

Riduzione del danno azionato a titolo di licenziamento illegittimo

Con la sentenza dell’8 luglio 2019 n. 18282, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di determinazione delle conseguenze pregiudizievoli connesse alla pronuncia di illegittimità del licenziamento, riconoscendo che è possibile “limitare” il risarcimento del danno patito dal lavoratore in conseguenza dell’illegittimo recesso del datore di lavoro.

La sentenza interviene su una tematica tanto interessante quanto spinosa, che attiene sia a profili di interesse generale (primo fra tutti: la ragionevole durata dei processi) – dei quali, tuttavia, non ci occuperemo in questa sede – sia a profili che attengono al rapporto di lavoro, inquadrati sotto una lente “civilistica”.

Il caso esaminato dai Giudici di legittimità riguarda l’impugnazione del licenziamento intimato per giusta causa da parte di un lavoratore nei cui riguardi trovava applicazione l’art. 18 St. Lav. (nella formulazione antecedente alla c.d. “Legge Fornero”). Tale norma prevede(va) che il Giudice, con la sentenza con cui ordina la reintegra, “condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subìto dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’inefficacia o l’invalidità stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto” (non vi era, quindi, alcun limite risarcitorio relativo alle retribuzioni pregresse).

In primo grado, il licenziamento veniva dichiarato illegittimo, con conseguente condanna del datore alla reintegra e al risarcimento del danno patito a seguito del licenziamento illegittimamente subito (c.d. ”indennità risarcitoria”).

A tal proposito, il Giudice di prime cure liquidava il risarcimento del danno per illegittimità del licenziamento in una somma pari alle retribuzioni globali di fatto maturate dal giorno del licenziamento (intimato nel gennaio 2007) fino alla pronuncia di reintegra (avvenuta a novembre 2014) e, perciò, maturate nel corso di quasi otto anni.

La Corte Territoriale, in riforma della sentenza di primo grado, ha “ridotto” (recte: determinato) la misura del risarcimento in misura pari alle retribuzioni globali di fatto maturate nei quattro anni successivi al licenziamento, oltre accessori e contributi previdenziali e assistenziali, in luogo degli otto anni riconosciuti in primo grado.

Il lavoratore ha censurato la sentenza della Corte del merito, lamentando la violazione dell’art. 18 St. lav. in relazione all’art. 1227, comma 2, c.c., che prevede un dovere del danneggiato di attivarsi per evitare (o, quantomeno, limitare) il danno secondo l’ordinaria diligenza. Il lavoratore ha dedotto, in particolare, che le conseguenze derivanti dalla durata oltre la media del processo (e, cioè, un ammontare del risarcimento del danno più elevato della media) non erano a lui riconducibili (“imputabili”), considerato che egli si era attivato nella ricerca di una nuova occupazione e che, sotto il profilo processuale, era parte vittoriosa, stante la declaratoria di illegittimità del licenziamento.

La Suprema Corte ha disatteso le argomentazioni di ricorso del lavoratore, confermando, sotto questo profilo, la sentenza impugnata.

Preliminarmente, la Corte di Cassazione ha evidenziato che il ragionamento seguito dai Giudici di appello era diverso da quello prospettato dal lavoratore, di modo che quel ragionamento non è stato oggetto di specifica censura da parte del ricorrente; quindi, i Giudici di cassazione, ripercorrendo la pronuncia gravata, che muove dalla considerazione per cui la illegittimità del recesso datoriale è fonte di responsabilità contrattuale, ha affermato che, ai fini della determinazione dell’ammontare del danno, deve trovare applicazione il criterio della “prevedibilità del danno” stesso ex art. 1225 c.c..

Orbene, l’art. 1225 c.c., vero sostrato normativo dell’intera struttura motivazionale della sentenza, sancisce che “se l’inadempimento o il ritardo non dipende dal dolo del debitore, il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione”.

Nell’interpretazione giurisprudenziale, più precisamente, la prevedibilità costituisce un limite (non all’esistenza del danno in sé ma) alla determinazione dell’ammontare del danno, con la conseguenza per cui il debitore non è tenuto a risarcire quel danno il cui ammontare assume una portata straordinaria rispetto all’entità dell’evento lesivo.

Tale prevedibilità deve essere valutata in astratto, avendo come parametro di riferimento una data categoria di rapporti e secondo le ordinarie regole di comportamento dei soggetti economici, e cioè secondo un criterio di normalità in presenza delle circostanze di fatto conosciute.

La Corte di Cassazione, facendo applicazione dei principi indicati, ha, anzitutto, premesso che i tempi processuali non possono incidere negativamente sul datore di lavoro, sotto il profilo della determinazione dell’ammontare del risarcimento del danno per illegittimità del licenziamento, potendo egli essere chiamato a risarcire solo il danno astrattamente prevedibile al momento del licenziamento stesso.

A tal fine, ben può l’applicazione di tale criterio derivare da un ragionamento presuntivo, fondato sulla valutazione del tempo medio necessario a che il lavoratore licenziato (che, nella specie, aveva una ridotta capacità lavorativa, in quanto invalido civile) si ricollochi in una nuova occupazione.

Pur trattandosi di un’interpretazione del “vecchio” art. 18 Stat. Lav., vi è un principio che tuttora potrebbe essere tenuto presente in tutte le ipotesi di licenziamento giudicato nullo e/o discriminatorio e, cioè, in tutte quelle ipotesi dove il risarcimento del danno del lavoratore non è soggetto ad un limite massimo (ma solo minimo, costituito da una somma “non … inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto”: cfr. art. 18, comma 2, St. Lav.).