Recesso in assenza di motivazione ed età pensionabile: alcuni recenti orientamenti giurisprudenziali
La Corte di Cassazione si è di recente pronunciata in merito al recesso ad nutum del datore di lavoro nell’ipotesi raggiungimento dei requisiti per la pensione di vecchiaia da parte del dipendente, affrontando, con più pronunce, profili differenti di tale medesima questione.
Come noto, infatti, in forza dell’art. 4 l. n. 108/1990, quando un lavoratore matura i requisiti pensionistici di vecchiaia, sempre che non abbia optato per la prosecuzione del rapporto, il datore di lavoro può recedere dal contratto di lavoro anche in assenza di motivazione, e cioè, ad nutum. Ciò in quanto dalla data di maturazione del trattamento pensionistico in poi non trova più applicazione il regime di stabilità reale.
La concreta applicazione di tale disposizione comporta delle criticità, in merito alle quali si è pronunciata la giurisprudenza di legittimità.
Proprio in riferimento al raggiungimento dei requisiti pensionistici da parte di un lavoratore da cui discende il potere di libero recesso, si è pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza n. 435/2019.
In primo luogo, in tale pronuncia, i Giudici di legittimità affermano nuovamente il principio in base al quale, pur non essendoci nell’art. 4 l. n. 108/1990 un espresso riferimento alla pensione di vecchiaia (il legislatore parla di “maturazione dei requisiti pensionistici”), solo il conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia consente il recesso ad nutum del datore di lavoro.
La rilevanza della predetta sentenza attiene al fatto che si tratta di una lavoratrice donna che, al momento del licenziamento, fruiva già della pensione di anzianità anticipata e che non aveva ancora compiuto i 65 anni di età.
In merito a ciò, i Giudici affermano che la pensione di anzianità anticipata ex art.1, comma 27, l. n. 335/1995, non è equivalente a quella di vecchiaia, acquisendosi al raggiungimento di differenti requisiti anagrafici e contributivi, e, pertanto, non è riferibile a tale ipotesi la tutela limitativa in caso di licenziamento.
Un particolare profilo d’interesse della pronuncia in parola attiene al momento in cui, in riferimento alle lavoratrici donne, la suddetta tutela limitativa si deve ritenere applicabile.
Infatti, in forza delle norme vigenti nel nostro ordinamento, si deve distinguere fra l’età pensionabile per le donne e l’età massima lavorativa stabilita per ambo i sessi. Quest’ultima, infatti, è pari a 65 anni e corrisponde all’età pensionabile prevista per gli uomini, ma è più elevata rispetto all’età pensionabile prevista per le donne.
Nonostante tale distinzione, la giurisprudenza e, da ultimo, la sentenza in parola hanno affermato che la tutela reale e la tutela obbligatoria si applicano anche alle lavoratrici donne che, pur avendo raggiunto l’età pensionabile, non hanno raggiunto l’età massima lavorativa. Pertanto: “[…] alle stesse compete il diritto di proseguire il rapporto di lavoro anche dopo il compimento dell’età pensionabile e fino al giorno del raggiungimento dell’età massima lavorativa, senza necessità di alcun onere di comunicazione, da parte loro, al datore di lavoro, e con l’ulteriore conseguenza che a quest’ultimo è fatto divieto di esercitare il recesso ad nutum nell’arco di tempo indicato.”
Quindi, in riferimento alle lavoratrici donne, il regime di libera recedibilità – previsto dal legislatore nei confronti dei lavoratori che abbiano raggiunto i requisiti pensionistici – trova applicazione dal momento in cui la dipendente abbia raggiunto l’età massima lavorativa, seppur questa sia superiore all’età pensionabile prevista per le donne.
Chiariti i termini della fattispecie in esame, è necessario chiedersi come il datore di lavoro dovrà operativamente far cessare il rapporto di lavoro in questi casi. Dal canto proprio, la Cassazione si è soffermata su due aspetti operativi, di particolare interesse, ossia il preavviso di licenziamento e il contratto a tempo determinato.
Ebbene, con sentenza pubblicata in data 30 maggio 2019, n. 14799, la Corte di Cassazione ha enunciato il seguente principio di diritto: “[…]il raggiungimento dei requisiti per l’attribuzione del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia da parte del lavoratore, determina il venir meno del regime di stabilità (con conseguente recedibilità ad nutum) ma non l’automatica estinzione del rapporto.”
La sentenza attiene al caso di un dirigente assunto con contratto a tempo determinato da un’azienda partecipata. Al raggiungimento, da parte del lavoratore, dell’età utile per la maturazione della pensione di vecchiaia, il datore di lavoro ha comunicato il proprio recesso, sia pure anticipatamente rispetto al termine stabilito.
Nella sentenza in parola, i Giudici di legittimità – ribadite la tipicità e la tassatività della cause di estinzione del rapporto di lavoro subordinato in generale – hanno escluso la risoluzione automatica del rapporto di lavoro a termine al compimento di una determinata età, o al raggiungimento dei requisiti pensionistici e utili alla pensione di vecchiaia.
Tale pronuncia è rilevante in quanto, in tal modo, la Corte di Cassazione ha inteso affermare che la maturazione dei requisiti pensionistici non giustifica il recesso anticipato del datore di lavoro dal contratto di lavoro a tempo determinato.
Il medesimo principio – in base al quale la tipicità e tassatività delle cause d’estinzione del rapporto escludono la risoluzione automatica al raggiungimento dell’età pensionabile – è altresì enunciato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 521 del 11 gennaio 2019.
In quest’ultima pronuncia, però, i Giudici di legittimità fanno discendere, dal predetto principio, in primo luogo, l’assunto per cui il raggiungimento dell’età pensionabile da parte del lavoratore comporta soltanto venir meno il regime di stabilità, determinando la recedibilità “ad nutum” dal rapporto di lavoro, senza che ciò comporti l’estinzione automatica del rapporto medesimo. Pertanto, se non vi è un espresso atto risolutivo del rapporto di lavoro, questo prosegue “con diritto del lavoratore a percepire le retribuzioni anche successivamente al sessantacinquesimo anno di età”(arg. ex l. n. 108/1990 e l. n. 247/2007 che ha modificato l’art. 6, comma 1, L. n. 243/2004).
In secondo luogo, la Corte di Cassazione ha fatto discendere dal citato principio l’ulteriore e conseguente assunto per cui nell’ipotesi di “risoluzione del rapporto per limiti di età anagrafica del lavoratore, al datore di lavoro è imposto comunque l’obbligo di preavviso”.