I buoni pasto nell’era dello smart working
Di seguito l’articolo a cura dell’Avv. Francesco Marasco e della Dott.ssa Chiara Pulvirenti pubblicato da Diritto24 e inerente il tema della regolamentazione dei buoni pasto per gli smart workers.
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I buoni pasto sono dei benefit solitamente concessi ai dipendenti in sostituzione del servizio mensa, anche al fine di ottimizzare i costi aziendali notoriamente connessi alla prestazione di tale servizio. Per vero, lo strumento del buono pasto, rispetto al comune “servizio mensa”, presenta vantaggi di non poco conto, sia per i dipendenti (rispetto ai quali il buono pasto non concorre a formare reddito soggetto a tassazione), sia per le aziende (attesi i minori oneri fiscali e previdenziali connessi all’erogazione e fruizione dei buoni pasto da parte della forza lavoro).
Ad incrementare ulteriormente i vantaggi connessi allo strumento in esame soccorrono, da ultimo, le modifiche apportate dalla c.d. “Legge di Bilancio 2020” (cfr. art. 1, comma 677, legge n. 160/2019) che, per vero, potrebbero spingere le aziende non solo verso l’adozione di buoni pasto in sostituzione del servizio mensa ma, segnatamente, verso l’adozione di buoni pasto c.d. “digitali”, ossia costituiti da carte elettromagnetiche (in sostituzione del noto “blocchetto” o “carnet” di buoni cartacei, ciascuno dei quali è contraddistinto da una matrice).
In particolare, tali modifiche incrementano la no tax-area ad € 8,00 per i buoni pasto digitali, mentre la riducono ad € 4,00 quella per i buoni pasto cartacei (cfr. art. 51, comma 2, lett. c, TUIR).
Per le aziende e gli imprenditori questo significa poter offrire al personale dipendente un reddito destinato ad una pausa pranzo di qualità, indispensabile per la salute e il benessere psico-fisico, beneficiando al contempo di un risparmio fiscale pro capite stimabile in circa € 1.760,00 all’anno per lavoratore (rispetto ai € 880,00 annui in caso di buoni cartacei).
Restano invariate le regole da seguire. Le aziende non possono corrispondere buoni pasto in misura superiore alle giornate di effettiva presenza su lavoro: diversamente, i buoni pasto in questione saranno interamente soggetti a tassazione, non potendo beneficiare del meccanismo di deducibilità integrale previsto dagli artt. 95 e 109 del TUIR (ma, semmai e sussistendone le condizioni, di quello parziale ex art. 100 del TUIR).
Orbene, con riguardo alle giornate di effettiva presenza sul lavoro si è registrato, di recente, un interessante dibattito circa il riconoscimento dei buoni in questione anche ai lavoratori adibiti in regime di smart working e, soprattutto, in regime di “smart working emergenziale”. La questione è di rilievo più economico-gestionale che non tecnico-giuridico: invero, se i dipendenti lavorano da casa, costoro consumeranno il pasto nel luogo di residenza e, quindi, lontano dal contesto lavorativo (ciò che, a detta di taluni, basterebbe di per sé ad escludere l’erogazione dei buoni).
Di fatti, la peculiarità dello smart working emergenziale di cui al d.l. n. 18/2020 (convertito, con modificazioni, in legge n. 27/2020) è il suo essere un istituto “ibrido”, ossia a metà strada tra il “telelavoro”, da cui riprende il concetto di sede di lavoro coincidente con il domicilio/la residenza del lavoratore, e lo “smart working”, da cui riprende – sia pure con qualche deroga – la disciplina generale di cui agli artt. 18-23 della legge n. 81/2017 e, in particolare, il suo art. 20, che ci apprestiamo ad analizzare qui di seguito.
Di tale peculiarità, ad onor del vero, si è accorto lo stesso INAIL, il quale ha elaborato un fact-sheet sul tema (reperibile a questo link).
Ciò posto, a detta di taluni, al minor disagio patito dallo home worker nella consumazione della propria pausa pranzo dovrebbe corrispondere la non erogazione dei buoni pasto da parte dell’azienda (con ogni conseguente vantaggio economico per quest’ultima, determinato dal minor esborso). Eppure, l’art. 20, comma 1, legge n. 81/2017 (pure richiamato dagli artt. 39, 75 e 87 e 87bis del D.L. n. 18/2020 convertito in L. 27/2020) sancisce che “il lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda”.
E proprio questo principio di parità di trattamento non solo “economico”, ma anche “normativo”, da valutarsi sempre nella sua “complessività” (per vero, gli smart worker potrebbero beneficiare di altri trattamenti di miglior favore rispetto ai loro colleghi in sede), imporrebbe, nel caso in esame, la corresponsione dei buoni pasto per ogni giornata di smart working o, meglio, di “home working”.
Da ultimo, sia pure nell’ambito del solo pubblico impiego, si è peraltro pronunciato il Tribunale di Venezia con sentenza n. 1069/2020. Nella specie la Federazione Metropolitana della Funzione Pubblica CGIL conveniva in giudizio il Comune di Venezia per aver escluso i lavoratori dal godimento dei buoni pasto senza previamente consultare le OO.SS. in proposito.
Le doglianze del Sindacato ricorrente venivano, però, respinte dal Giudice veneziano per ciò che “il lavoro agile è incompatibile con la fruizione dei buoni pasto”. Nel caso di specie, invero, il CCNL di comparto applicabile, all’art. 45, riconosce il diritto ai buoni pasto solo qualora l’orario di lavoro sia “organizzato con specifiche scadenze orarie” e solo qualora “il lavoratore consumi il pasto al di fuori dell’orario di servizio”. Dal momento che il lavoratore agile sarebbe “libero di organizzare come meglio ritiene la prestazione sotto il profilo della collocazione temporale”, ecco che viene meno il concetto di “scadenza oraria” e, dunque, il presupposto per l’erogazione stessa del buono pasto.
Le considerazioni del Tribunale di Venezia muovono, in una certa misura, da un principio enunciato dalla Suprema Corte di Cassazione in tempi non sospetti (Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza n. 31137/2019), secondo la quale il buono pasto non rappresenta né un elemento della retribuzione, né un trattamento riferibile direttamente alla prestazione di lavoro in quanto tale, bensì un “beneficio conseguente alle modalità concrete di organizzazione dell’orario di lavoro”: sicché, se tali modalità sono rimesse al lavoratore, nulla è dovuto a questi a titolo di buoni pasto.
Ci attendiamo che un principio analogo trovi applicazione anche in relazione ai rapporti di lavoro privato. Sino ad allora, ogni scelta aziendale in punto di erogazione dei buoni pasto dovrebbe essere attentamente contemperata con i costi/benefici che potrebbero derivare, oppure no, dal riconoscimento di un simile benefit alla collettività della forza lavoro aziendale.
L’articolo è disponibile anche in PDF a questo link.