Contratti di appalto

La clausola di gradimento nella sentenza del Tribunale di Torino

Contratti di appalto: “non gradimento” del committente ed obblighi di buona fede e correttezza

Pubblichiamo di seguito l’articolo a firma dell’avv. Francesco Marasco per Diritto24.

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A oggi sono ancora poche le pronunce giurisprudenziali che analizzano le conseguenze derivanti dall’esercizio della c.d. “clausola di gradimento” nell’ambito dei contratti di appalto.

Tra queste pronunce si segnala, in particolare, quella resa dal Tribunale di Torino (sentenza n. 4226/2019) avente ad oggetto una fattispecie di licenziamento (rectius, di “allontanamento dell’appalto”) intimato in ragione del non-gradimento espresso dal committente verso un certo dipendente dell’appaltatore.

Più in particolare, nel caso di specie l’appaltatore aveva proceduto al licenziamento del dipendente sgradito ritenendo che “tale comunicazione del committente rappresent[asse] il motivo oggettivo fondante il licenziamento, essendo una ragione organizzativa (impossibilità di utilizzare il lavoratore presso l’appalto) sufficiente a portare al recesso”.

Per contro, il Giudice torinese, pur escludendo che “ogni clausola di gradimento contenuta all’interno di un capitolato di appalto … sia illegittima”, rilevava che l’esercizio in concreto di una siffatta clausola deve essere pur sempre “ispirato a correttezza e buona fede”; diversamente, il contratto di appalto assurgerebbe, rispetto alla posizione dei singoli dipendenti, ad un vero e proprio “contratto a danno di terzi” (fattispecie che, precisa il Tribunale, è da escludersi nel nostro ordinamento).

Tanto era avvenuto, secondo il Tribunale, nel caso di specie, posto che, con la comunicazione inviata dal committente all’appaltatore, si chiedeva semplicemente “l’immediato allontanamento dal sito in oggetto del … e la Sua contestuale sostituzione”, senza neppure indicare i motivi che avevano portato ad una tale decisione (e senza che l’appaltatore li chiedesse).

Tra questi motivi, lo ricordiamo, parte della giurisprudenza di merito vi fa rientrare anche i gravi precedenti penali” che può aver riportato, in passato, il lavoratore sgradito, i quali rileverebbero “indipendentemente dall’essere detti precedenti risalenti nel tempo e/o oggetto di domanda di riabilitazione” (così, Trib. Reggio Calabria, ord. n. 10071/2019).

In sintesi, il principio è: la “clausola di non gradimento” è uno strumento che può essere legittimamente previsto e disciplinato nei contratti di appalto; tuttavia, è onere del committente e dell’appaltatore verificare che l’esercizio del non-gradimento sia fondato su comprovate motivazioni e, comunque, rispettoso dei canoni di buona fede e correttezza.

Quale notazione finale, si osserva che, nel caso in esame, il Giudice torinese, pur accertando l’illegittimità dell’operato dell’appaltatore, non reintegrava il dipendente sgradito: ciò in quanto il motivo oggettivo costituito dal non-gradimento del committente era “sussistente”, ma “non motivato”. Da qui, il mero indennizzo del lavoratore, ai sensi dell’art. 18, comma 5, legge n. 300/1970 (in luogo della reintegra ai sensi dell’art. 18, comma 4, ult. cit. che spetta, appunto, in caso di insussistenza del motivo oggettivo).

L’articolo è qui disponibile in versione pdf.