Licenziati per superamento del periodo di comporto:

il contrasto giurisprudenziale

Superamento del comporto e discriminazione indiretta: il punto della giurisprudenza

Condividiamo di seguito l’articolo a firma dell’avv. Francesco Marasco sul contrasto giurisprudenziale tuttora in atto per i casi di lavoratori licenziati per superamento del periodo di comporto, e pubblicato da ADAPT nell’ultimo bollettino (n. 40 del 11 novembre 2019).

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Il contrasto giurisprudenziale

Imperversano nelle aule dei tribunali italiani sempre più casi di lavoratori licenziati per superamento del periodo di comporto i quali, nel tentativo di “paralizzare” gli effetti del licenziamento, eccepiscono che la malattia sarebbe derivata da uno status invalidante che, seppure noto al datore di lavoro, non sarebbe stato da questi tenuto in alcun conto.
Allo stato, si registrano quattro provvedimenti di sicuro interesse (a quanto consta, tutti inediti): Trib. Milano, sent. n. 2857/2016; Trib. Milano, ord. n. 1883/2017; Trib. Parma, ord. 17 agosto2018; Trib. S.M. Capua Vetere, ord. n. 20012/2019. Di questi, due accolgono le tesi difensive dei lavoratori (id est: Trib. Milano, sent. n. 2857/2016 eTrib. S.M. Capua Vetere, ord. n. 20012/2019) con argomentazioni che, peraltro, stimolano ben più di una riflessione.

Le pronunzie a favore dei lavoratori.

I Tribunali che hanno accolto le tesi difensive dei lavoratori, ed annullato i recessi datoriali, hanno ritenuto dirimente il fatto che “il licenziamento non costituisce … una discriminazione diretta, ma una discriminazione indiretta”, giacché l’esercizio del potere datoriale di recesso costituirebbe applicazione di “una disposizione apparentemente neutra (la normativa sul comporto) che però mette il lavoratore (portatore in questo caso di un … handicap) in una posizione di particolare svantaggio” (cfr. Trib. Milano, sent. n. 2857/2016). Ciò con la conseguenza che sarebbe “onere della parte datoriale provare che l’intero periodo di assenza … era assolutamente indipendente dalla … patologia” invalidante (cfr. Trib. Milano, sent.n. 2857/2016).

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L’articolo completo è disponibile qui.