Reato contravvenzionale o reato delittuoso?

Come incide la natura del reato sul licenziamento

La natura contravvenzionale del reato esclude il licenziamento

Secondo consolidata giurisprudenza, il ragionamento logico-giuridico da seguire ai fini della valutazione di legittimità del licenziamento intimato per gravi motivi disciplinari è articolato in due fasi: (i) la prima fase riguarda l’accertamento del fatto concretamente addebitato al lavoratore; (ii) la seconda fase riguarda, invece, il giudizio di proporzionalità della sanzione comminata (i.e.: il licenziamento) rispetto al fatto accertato in giudizio: da ciò, invero, dipende l’applicazione della tutela reintegratoria (cfr. art. 18, comma 4, legge n. 300/1970), ovvero della tutela risarcitoria (cfr. art. 18, comma 5, legge n. 300/1970).

Con specifico riguardo all’applicabilità della tutela reintegratoria, è notorio che essa potrà essere invocata dal lavoratore sia nel caso di inesistenza del fatto oggetto di addebito, sia nel caso in cui il fatto addebitato, seppure esistente, è privo di rilevanza disciplinare, ovvero non costituisce un fatto illecito.

Da quanto sopra deriverebbe – il condizionale, come vedremo, è d’obbligo – che l’accertamento di un fatto costituente reato, stante la sua natura intrinsecamente illecita, dovrebbe sempre legittimare l’irrogazione di un licenziamento. Per la Suprema Corte ciò, però, non sempre è vero.

In particolare, I Giudici di legittimità, recentemente chiamati a pronunziarsi (sentenza n. 3076/2020) sulla legittimità di un licenziamento irrogato in seguito al definitivo accertamento di un reato commesso da un dipendente, hanno tenuto a distinguere il momento temporale in cui la condotta de qua si sarebbe perfezionata: ciò in quanto se tale condotta risulta essere stata commessa quando “il rapporto di lavoro non era ancora in essere, la verifica sul carattere di illiceità non deve essere rapportata alla responsabilità disciplinare, non configurandosi un obbligo di diligenza e/o di fedeltà ex art. 2104 e 2105 cc”.

Al contrario, quella condotta dovrebbe “essere parametrata alla rilevanza giuridica che il comportamento del soggetto può rivestire, con riguardo al ‘disvalore sociale oggettivo del fatto commesso nel contesto del mondo dell’azienda’, in virtù di una non perfetta sovrapponibilità tra sistema penale e sistema disciplinare”; ciò, prosegue il Supremo Collegio, al fine di “evitare … che ogni condotta, comunque accertata come reato, sarebbe illecita e, quindi, idonea a giustificare un licenziamento”.

In aggiunta a quanto precede e sviluppando il ragionamento dianzi illustrato, i Giudici di legittimità hanno, quindi, tenuto a distinguere la natura del reato (“contravvenzionale” o “delittuosa”) imputato al dipendente e poi accertato: ciò in quanto vi sarebbe una sostanziale differenza “tra un reato contravvenzionale colposo, commesso prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro ma accertato successivamente” e la “commissione di un delitto la cui violazione del bene giuridico protetto, in termini di antigiuridicità, può incidere in modo più intenso e concreto nell’ambito del rapporto lavorativo contrattuale tra datore e dipendente”.

Nel caso di specie, il ragionamento seguito dal Supremo Collegio non determinava l’accoglimento delle istanze del lavoratore, posto che i reati a lui imputati – seppure non commessi in connessione od in costanza di rapporto di lavoro e sebbene fossero stati accertati solo successivamente all’instaurazione dello stesso – non erano di natura contravvenzionale (trattasi, invero, di “associazione per delinquere, crimine organizzato transnazionale, evasione fiscale”).

Al di là dell’effettivo esito del giudizio in commento (favorevole al datore di lavoro), il dictum della Suprema Corte potrebbe destare qualche perplessità in ordine al diverso modo in cui deve essere gradata l’illiceità di un addebito costituente anche una fattispecie di reato, a seconda che esso rientri nel novero dei “reati contravvenzionali” ovvero dei “reati delittuosi”. Dopotutto, il semplice fatto che ad un dipendente venga contestata la commissione di un “reato” dovrebbe essere bastevole ad escludere la liceità di quanto addebitato.

Per contro, la pronuncia della Corte di Cassazione riporta in auge un orientamento già adottato dalla orientamento di merito che, in un caso analogo a quello in commento, concludeva nel senso che la commissione di un “reato contravvenzionale” non costituisse, di per sé, una “giusta causa” di recesso (come nel caso di incauto acquisto, da parte di un ausiliario di Banca, di ruote provenienti da un veicolo rubato: cfr. Pret. Palermo, 6 novembre 1980).